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Mr. Long
La traiettoria di Mr Long è uno zigzag: Sabu - in concorso alla Berlinale 2017 - non ha voglia di una storia lineare, anzi decide di cambiare rotta ogni quarto d’ora, ma ciononostante riesce a costruire un mondo credibile e un film che riesce anche a commuovere.
Il Mr Long del titolo è un killer professionista taiwanese abile col coltello, costretto a nascondersi in Giappone dopo una missione andata male: qui lo accoglie una comunità di poveri che, accortisi del talento di Long per la cucina, lo convince ad aprirsi un chiosco di street food. Ma il passato ovviamente tornerà incurante delle vite che cercano di dimenticarlo. La sceneggiatura dello stesso regista prende un plot che 20 anni fa avrebbe raccontato Takeshi Kitano e lo reimpasta con un tono all’apparenza estemporaneo estremamente curioso.
In Mr Long, Sabu sembra un gatto: mentre sta raccontando una storia devia, si concentra su qualcos’altro, gli si dedica prima di deviare nuovamente, di aprire squarci, digressioni e parentesi che forse non collimano ma che comunque creano un mondo che ha una sua coerenza, una sua bellezza. È un modo di raccontare e costruire il film anche come tono di regia, che passa dell’umorismo al pathos estremo, dal noir al potere salvifico del cibo, che può spazientire lo spettatore, che è cosciente di poter essere rifiutato, ma che nasconde dentro una dolcezza, una malinconia tenera che poco a poco commuove.
E vi riesce anche di più visto che Sabu non ha interesse - come Kitano - nella perfezione, nella cura del gesto cinematografico, ma crede nell’istinto del cinema: valgano come prova le due sequenze violente a inizio e fine film (ma anche la scena madre finale), in cui non ci sono coreografie, non c’è la traiettoria della macchina da presa, o la sua immobilità, a dare forza artistica, c’è un abbozzo, uno schizzo, un’idea primordiale tratteggiata al volo ma che esprime bene ciò che Sabu vuole dare allo spettatore: l’immediatezza di un’emozione.