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Evan Peters in Dahmer - Mostro: La storia di Jeffrey Dahmer. Cr. Courtesy Of Netflix © 2022
Milwaukee, 1991: Jeffrey Dahmer viene arrestato dalla polizia intervenuta in soccorso di Tracy Edwards, un ragazzo nero seminudo in mezzo alla strada stravolto dal panico. La perquisizione dell’appartamento di Dahmer è degna di uno slasher movie anni ’70: la polizia rinviene ovunque resti di cadaveri, alcuni sciolti in un barile di acido, altri conservati in frigorifero a scopo (per confessione dello stesso Dahmer) alimentare. Il mondo scopre con orrore l’esistenza di uno dei più efferati serial killer della storia, incapace di frenare l’istinto omicida presente in lui dall’adolescenza.
Quello di Dahmer è un caso dei tanti celebri assassini seriali, è quello che più rimane stampato nell’immaginario collettivo. Più del killer dello Zodiaco, di John Wayne Gacy, di Ed Gein o di Ed Kemper, per citare i più celebri. Anche chi all’epoca non era nato, ne ha sentito parlare; in un certo senso, la sua fine in prigione, per mano del detenuto invasato Christopher Scarver, è anche quella dell’epoca d’oro (diciamo così) dei serial killer che va dagli anni sessanta fino alla fine degli ottanta, quando l’unico cambiamento della società e dei metodi investigativi ha portato a una brusca frenata del fenomeno (ne sa qualcosa Dennis “BTK” Rader, scoperto dalla polizia nel 2005 dopo anni di latitanza, grazie a un floppy disk nella cui memoria era ancora presente un documento di testo registrato a suo nome).
Negli anni, questi personaggi sono divenuti oggetto di interesse crescente da parte di una nutrita fanbase, foraggiata per anni a suon di documentari, filmati di processi e clip di interviste presenti su Youtube: al momento di produrre una fiction, era evidente come solo Dahmer poteva esserne il protagonista. Meno chiaro come agire, e soprattutto a chi affidarla: la scelta di un autore tutt’altro che essenziale come Ryan Murphy (showrunner assieme a Ian Brennan), evidentemente dovuta alla sua partecipazione in American Crime Story, lasciava sinceramente perplessi.
Per raccontare Jeffrey Dahmer è infatti necessario spogliare la narrazione da qualunque intento sociologico, scarnificare il racconto da morali e temi portanti, e lasciarsi semplicemente andare alla visione dell’orrore. Dahmer è un mostro consapevole di esserlo: la sua autoconsapevolezza, l’impossibilità di fermarsi, sono la causa della sua popolarità, più dell’efferatezza dei suoi delitti. Un uomo irrecuperabile, vittima di una vita miserabile (viene letteralmente abbandonato dai genitori, per quanto il padre cercherà sempre di aiutarlo fino all’ultimo), incapace di accettare la fine dei rapporti umani e il normale scorrere del tempo. Sensazioni umanissime, che abbiamo provato tutti almeno una volta, e che generano nel fruitore del maniaco Dahmer un’incredibile empatia.
Poi c’è la follia di Jeffrey, l’illogica rielaborazione di quanto lo circonda, l’utopia di uccidere per avere sempre vicino a sé le persone che ama, quelle che prima o poi se ne vanno sempre. E poi c’è tutto il resto, l’indignazione generale, il processo: ma Dahmer, lì, è già morto. Si sta già parlando di altro. Possiamo parlare di due fasi distinte e separate, messe insieme per amor di cronaca, ma molto differenti da rendere non documentaristicamente, come finora siamo stati abituati a fruire di questa e altre storie efferate.
Purtroppo, un episodio pilota didascalico ed effettistico fa subito temere il peggio; poi, dal secondo episodio, sembra avvenire il miracolo, complice un Evan Peters perfetto, il Dahmer che probabilmente ricorderemo per gli anni a venire. Il lavoro sul personaggio è semplicemente perfetto, la regia raggelata (e debitrice di Mindhunter) mostra unicamente un meccanismo mentale fallato e la sua coazione a ripetere l’anomalia, l’orrore, senza esaltazione o compiacimento, oscillando impazzita in salti temporali non lineari che restituiscono intatti un’omosessualità sublimata nella necrofilia e nel cannibalismo.
Un crescendo disturbante che culmina nell’episodio migliore, il sesto, dove il cambio del punto di vista (dall’aggressore alla vittima, il sordomuto Tony Hughes) commuove e devasta, mostrando a tutto tondo per riflesso un Jeffrey Dahmer vittima insalvabile di una tragedia senza possibilità di redenzione. Ed è a questo punto che, purtroppo, la miniserie si inceppa, ansiosa di raccontare tutto, anche il superfluo, molto probabilmente schiacciata dal dovere di cronaca o dalla necessità di dar voce ai parenti delle vittime.
Fatto sta che Dahmer termina qui. Il resto è didascalico, pedante, sensazionalistico, banalmente poco interessante. Oltretutto ricostruito forzatamente e fantasiosamente, dal quotidiano dei parenti delle vittime (che a giudicare dalle reazioni negative verso la serie, non avvertivano questa necessità di essere mostrati) alla vicina di casa Glenda Cleveland (Niecy Nash), al cui personaggio cui viene concesso un minutaggio smisurato (ed oltretutto non era la vera dirimpettaia di Dahmer), passando per Jesse Jackson e le accuse della comunità nera alla polizia, rea di avere ignorato le numerose segnalazioni che avrebbero portato a un tempestivo arresto di Dahmer.
L’unico effetto è quello di rinnegare nei fatti l’empatia cercata verso Jeffrey, distanziandolo nella prigione e nella morte (in un improbabile parallelismo con Gacy), attenendosi al suo status di mostro già ampiamente messa in conto senza ulteriori riflessioni, lasciandoci in balia di una comunità di personaggi monodimensionali e mal descritti. Purtroppo Ryan Murphy non si è reso conto di stare raccontando due storie in una, e una molto peggio dell’altra. Ma il successo di pubblico non gli darà troppo da preoccuparsi, e alla febbricitante Netflix darà senz’altro una boccata di ossigeno.