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Ennesima trasposizione o, meglio, ispirazione cinematografica al classico di Alexandre Dumas, Moschettieri del Re – La penultima missione è diretto da Giovanni Veronesi e interpretato da Pierfrancesco Favino, alias un D’Artagnan tutto grammelot e virtuosismi, Valerio Mastandrea, nei panni smunti e alticci di Porthos, Rocco Papaleo, ovvero il bisessuale Athos, e Sergio Rubini, nella tonaca di Aramis.
Nel cast Margherita Buy, ossia la regina Anna, Matilde Gioli, ancella, Giulia Bevilacqua, Milady, e Valeria Solarino, i quattro moschettieri, da 30 anni inattivi e quantomeno arrugginiti, vengono richiamati in servizio dalla regina Anna per un’ultima o, chissà, penultima missione: salvare la Francia e salvaguardare gli Ugonotti dalle mire sanguinarie del cardinale Mazzarino incarnato da Alessandro Haber.
Cinque milioni di euro di budget, riprese effettuate prevalentemente in Basilicata, Moschettieri del Re si ispira, vorrebbe, alla monicelliana Armata Brancaleone, ma mostra più di qualche affanno drammaturgico, con una sceneggiatura lasca, zeppa di punti morti, stracche e raccordi alla bisogna: qualche battuta va a segno, qualche sorriso è genuino, giacché gli attori, almeno quelli protagonisti, sono il punto di forza, ma fino a un certo punto, basti pensare a Favino, più bravo che efficace, più solipsistico che valore aggiunto, e - si capisce – il problema non è lui ma il film che non lo sostiene.
I soldi si vedono nei mezzi espressivi, dolly e droni come se piovesse, meno nei risultati espressi, per tacere di una Basilicata suggestiva, sì, ma troppo assolata per un fantomatico Suppergiù localizzato nella Francia settentrionale. In bilico tra realtà e fantasia, vorrei ma non posso, Veronesi ci mette anche il parallelismo sociopolitico con l’attuale tragedia dei migranti, con un forzoso richiamino televisivo a quelli che muoiono in mare anche a Natale, e ce lo saremmo risparmiati: non è che l’impegno sia di per sé il benvenuto, anche perché bisognerebbe capire che s’intende per impegno.
Se anche la colonna sonora di Luca Medici, anagrafe per Checco Zalone, non lascia il segno, si fatica più in generale a capire il senso dell’operazione, e… vi ricordate Il mio west? Ecco, quello.