PHOTO
Tre donne, dei loculi e una camera fissa. E’ tutto quello che serve a Daniele Segre per imbastire una dark comedy sull’alienazione e la solitudine, dalle atmosfere sinistre, l’ironia sulfurea e un titolo che è tutto un programma: Morituri. Il terzo quadro di una trilogia composta da Vecchie (2002) e Mitraglia e il verme (2004), “a parte” riflessivo e metaforico nella filmografia politica e documentaria di Segre.
Presentato in una sottosezione di Festa Mobile, Palcoscenico, dedicata alle opere a cavallo tra cinema e teatro, Morituri segue le vite di tre donne di mezza età - Nora, Aurora e Olimpia – che s’incrociano tra i loculi di un cimitero. Nora, la zitella, è la responsabile del settore. E’ una donna zelante fino alla pedanteria e chiusa a doppia mandata sul proprio privato, ammesso ne abbia uno. In effetti tutto quello che le vediamo fare è parlare con i defunti come fossero amici di una vita. Per lei i veri morti sono i vivi e come darle torto se le due controparti sono rispettivamente una zitella capace solo di petulare e imbastire relazioni telefoniche attraverso un servizio di incontri e una vedova il cui unico desiderio è quello di non desiderare più. Evidente il significato simbolico della messa in scena: “Ogni personaggio di Morituri – ammette Segre - porta con sè la propria storia e la propria solitudine, per approdare a una dimensione sospesa e astratta che rende la storia universale e senza tempo”.
Che è poi il trait d’union con gli altri due “quadri” della trilogia – le due anziane donne che non riescono a uscire di casa in Vecchie e la coppia di disperati malandrini di Mitraglia e il verme – parenti anche per la comune cifra espressiva, il piano fisso, espediente che “mi è servito per rafforzare le unità di tempo, luogo e azione su cui è scandita la drammaturgia del film”. Girato nel cimitero sconsacrato di San Pietro in Vincoli di Torino, Morituri è però più apparentato, e non solo per evidenti ragioni anagrafiche e di gender, con il primo film della trilogia, con cui condivide un approccio scenico fondamentalmente brechtiano, nella dialettica tra immobilismo (dei corpi) e dinamismo (della parola), e un sentimento del tempo di pura snervante attesa, beckettiano.
Il risultato è volutamente alienante, lo spazio fisico e allegorico del cimitero amplifica l’inerzia tombale delle tre vite/non vite sullo schermo, perfettamente disincarnate nella performance puramente esteriore delle attrici (le brave Tiziana Catalano, Donatella Bartoli e Luigina Dagosino). Un esercizio di scrittura e di recitazione rigoroso, che fuori dal teatro però funziona meno, soffre l’ulteriore diaframma dello schermo e fa soffrire. 60 minuti senza sussulti né palpiti. Mors tua sì, vita mea no.