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Monuments Men
"Ne è valsa la pena? Perdere degli uomini per salvare opere d'arte?". La domanda, ovviamente, è retorica. E non è un caso che, in chiusura di film, venga posta proprio a George Clooney, regista, protagonista, sceneggiatore e produttore (insieme a Grant Heslov) di Monuments Men, trasposizione cinematografica del libro di Robert M. Edsel e Bret Witter a sua volta ispirato alla vera storia di un manipolo di soldati, non più giovani e neanche tanto in forma, composto da direttori di museo, curatori, artisti, architetti e storici dell'arte, che durante la Seconda Guerra Mondiale decisero di raggiungere le linee del fronte per tentare di mettere in salvo numerose opere d'arte trafugate dai nazisti - dalla Madonna di Bruges di Michelangelo all'Astronomo di Vermeer - per restituirle ai legittimi proprietari.
Alla quinta regia di un lungometraggio, Clooney - che nel film è Frank Stokes (personaggio ispirato a George Stout), uno dei massimi storici dell'arte, che si occupa di conservazione al museo Fogg di Harvard - sceglie per la quarta volta (dopo Confessioni di una mente pericolosa, Good Night, and Good Luck e In amore niente regole) di tornare indietro nel tempo (l'unica eccezione della sua filmografia da regista, finora, resta Le idi di marzo, ambientato nei nostri giorni), questa volta per tentare di misurarsi con il genere bellico, da una parte alleggerendone gli stilemi che hanno contraddistinto anni e anni di cinematografia USA, pur senza dimenticarne i riferimenti, dall'altra riportando a galla una storia che rischiava di finire nel dimenticatoio.
Per farlo, si affida all'impianto corale del racconto, raduna attorno a sé un cast di prim'ordine - da Matt Damon a Cate Blanchett, da John Goodman a Jean Dujardin, da Bill Murray a Hugh Bonneville - e sfrutta la versatilità di un compositore come Alexandre Desplat (tra l'altro protagonista di un simpatico cammeo, "sfizio" che si toglie anche Heslov, sullo schermo nei panni di un dottore) per costruire un accompagnamento musicale capace di tenere in piedi le varie "anime" del film, avventurosa, drammatica e ammantata di malinconica ironia.
La struttura c'è, l'obiettivo dell'operazione (diegetica e non) è manifesto, la sensazione è che però rimanga un film incompiuto, che non sfrutti le enormi potenzialità di ogni singolo attore (ineccepibile, comunque, la performance compassata di Cate Blanchett, nei panni di una donna francese curatrice al Jeu de Paume, in origine un museo, poi diventato deposito per le opere d'arte trafugate dai nazisti), finendo per alternare un insieme di situazioni, di scene, senza trovare la continuità che porti sulla strada di un respiro più ampio, di fatto rimanendo distante e, per questo, incapace di coinvolgere quanto vorrebbe. Peccato, ma anche al buon George non può riuscire sempre tutto.