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Monte Verità
Non siamo così esperti in materia per dar ragione o torto a Florian Keller, giornalista elvetico che ha coniato il termine “Schissfilm” per sottolineare la stasi creativa e i limiti del cinema svizzero. Certo è che un film come Monte Verità (presentato al Locarno Film Festival nel 2021) sembra scontornarsi dalla contemporaneità senza però ottenere i galloni del classico, scegliendo un pur legittimo approccio tradizionale per restituire un’esperienza per definizione antitradizionale. Che è quella della comunità fondata all’inizio del Novecento su una collina nel Canton Ticino, formata da persone accomunate da aspirazioni e ideali utopisti, vegetariani, naturisti, teosofici, anarchici.
Stefan Jäger ne ricostruisce la storia incardinando la narrazione su un personaggio di finzione, una giovane viennese, moglie e madre, che soffre la vita matrimoniale e la società borghese. Alla ricerca della libertà espressiva, in fuga dall’opprimente marito, si unisce alla comunità di Monte Verità e trova l’emancipazione attraverso la fotografia. È proprio la fotografia a svelare il malessere, con lo svenimento programmatico quanto suggestivo che coglie la protagonista in posa per un ritratto di famiglia: un intervento del mezzo pari a un’epifania che nella coreografia dell’estasi panica indica alla sventurata una nuova strada.
Jäger usa la fotografia e ciò che le gira attorno per entrare nel malessere e nella rigenerazione della donna, individuando nell’occhio lo spazio in cui esplorare l’ignoto, scorgere il riverbero della modernità, intravedere il desiderio di essere altra da sé. Sono gli elementi più sfiziosi del film di Jäger, che coltivava l’idea del film dagli anni Ottanta e, grazie a un budget vicino agli 8 milioni di dollari, è riuscito a dare sostanza cinematografica a una storia ricca e stratificata.
Ma se la regia sa valorizzare al meglio il paesaggio (l’idillio naturale come epitome della libertà anche fisica dunque emotiva, gli interni dominati da un felice disordine a rappresentare il tumulto creativo, l’ovvio conflitto tra gli ambienti borghesi e quelli abitati dagli artisti), che non tralascia la gratificazione del territorio senza cedere alla pretestuosità delle cartoline turistiche, non sembra parimente all’altezza sul piano delle relazioni tra i personaggi. Ne risente il ritmo, più dilatato che rarefatto, con un montaggio di taglio televisivo, che se da una parte ha il merito di rendere comprensibile l’aria del tempo e il dominio patriarcale in ogni settore della vita, dall’altra finisce per rendere didascalico l’apparato umano della comunità.
E se Hermann Hesse è un’apparizione emblematica mentre si spoglia declamando quel che sarà il Siddharta, una figura complessa come Otto Gross, psicanalista ostile alle tesi di Freud, viene descritta con poca fantasia nei termini di un leader carismatico e disperatamente romantico nonostante le derive del suo pensiero controverso.
No, non sappiamo dire se Keller abbia ragione o no, ma possiamo confrontare Monte Verità con un film analogo che parte dallo stesso assunto (un corpo estraneo che entra in una comunità alternativa al sistema e cambia prospettive), Capri-Revolution di Mario Martone: tanto è rischiosa e profonda, sia sul piano visivo che su quello intellettuale, il “salto nel vuoto” del regista napoletano quando è “rassicurante” e lineare il dramma di Jäger.