“I fratelli Menéndez dovrebbero mandarmi dei fiori. Non hanno mai ricevuto così tanta attenzione negli ultimi trent’anni. E non solo da parte di questo Paese, ma da tutto il mondo”.

Così Ryan Murphy ha risposto alle varie dichiarazioni della famiglia Menéndez, che ha definito “falsa, disgustosa e anacronistica” la seconda stagione della serie televisiva antologica Monster, basata proprio sul controverso caso di Lyle ed Erik Menéndez, che, la sera del 20 agosto 1989, uccisero a fucilate i genitori a Beverly Hills. Secondo la difesa, fu un atto di disperazione causato da anni di abusi fisici, psicologici e sessuali, perpetrati con sadismo dal padre José e avallati dall’indifferenza della madre Kitty. Per l’accusa, invece, i fratelli erano solo due assassini amorali e viziati degni di un libro di Bret Easton Ellis (il loro psicoterapeuta, il dottor Jerome Oziel, li definì “una coppia di sociopatici”), decisi a sbarazzarsi dei genitori per assicurarsi quel patrimonio multimilionario da cui il padre intendeva escluderli.

Eppure Monsters – La storia di Lyle ed Erik Menéndez (che arriva a due anni di distanza da Mostro: La storia di Jeffrey Dahmer, 2022) non è certo stato l’unico prodotto televisivo a occuparsi dei fratelli assassini. Nel 1991 (ancora prima che iniziasse il processo) la stagione inaugurale di Law & Order si ispirò a loro per la puntata Il morso del serpente e nel 1994 (mentre era in corso il procedimento legale che li avrebbe condannati all’ergastolo) uscirono ben due film a tema: Menéndez: A Killing in Beverly Hills (CBS) e Onora il padre e la madre: la vera storia degli omicidi dei Menéndez (NBC). Nel 2017, poi, sono arrivati sia Menéndez: Blood Brothers (Lifetime), sia l’unica stagione della serie televisiva Law & Order True Crime, intitolata The Menéndez Murders e non rinnovata proprio per lo scarso interesse del pubblico. Esattamente il contrario di quanto sta succedendo a Monsters, che, insieme alle visualizzazioni, sta suscitando un ricco corollario di polemiche.

Quali punti dolenti ha toccato Ryan Murphy per scatenare tanto interesse? A un primo sguardo, si tratta di un’opera che rispecchia al cento per cento il suo marchio autoriale: stile patinatissimo, edonismo decadente, atmosfere dalla forte componente morbosa, massicce iniezioni di camp, risvolti queer, colonna sonora a effetto, autocitazioni (da Nip/Tuck, 2003/2010, a Il caso O.J. Simpson, 2016), prolissità compiaciuta e cast ben costruito, con i giovani Nicholas Chavez (Lyle) e Cooper Koch (Erik) capaci di “palleggiare” alla pari con i veterani Javier Bardem (José) e Chloë Sevigny (Kitty), senza tralasciare gli intensi contributi di Nathan Lane (chiamato a interpretare lo scrittore Dominick Dunne, che seguì il processo per Vanity Fair e ipotizzò un legame incestuoso fra i due assassini) e Ari Graynor, qui nei panni dell’avvocatessa Leslie Abramson, fermamente convinta dell’innocenza dei fratelli, ma penalizzata dall’essere poco simpatica ai membri maschili della giuria. Fino alla quinta puntata (The Hurt Man / L’uomo ferito, incentrata sulla descrizione degli abusi, girata a camera fissa sul volto di Erik e capace di mettere a dura prova l’emotività di chi guarda) sembra il classico prodotto che vorrebbe rivelarci i traumi inconfessabili di chi abbraccia il proprio lato oscuro. Ma, dal sesto episodio, la miniserie fa un’inversione a U e opta per l’effetto Rashomon, rendendo tutti gli individui coinvolti testimoni affidabili e, al tempo stesso, completamente inattendibili. La consapevole ambiguità che ha sempre contraddistinto i lavori di Murphy va oltre la trama e l’estetica, ammantando la messa in scena e i protagonisti (che a tratti sembrano volutamente “recitare” e quindi fingere qualcosa che non stanno provando o non è avvenuto) e attraversando così lo schermo per arrivare direttamente a chi guarda, costringendolo a chiedersi cosa pensa della vicenda e in base a quali elementi potrebbe mai arrogarsi il diritto di formulare un giudizio definitivo.

Inoltre, se Dahmer ci mostra quando possano essere desolanti l’infelicità e l’alienazione di un serial killer affetto da vari disturbi di personalità, Monsters erode uno dei sommi dogmi della comunicazione multimediale contemporanea: la santificazione immediata della vittima. Sembra assurdo doverlo ribadire, ma aver subito qualcosa di atroce non trasforma nessuno in una brava persona. Descrivere chiunque venga assassinato o violato con termini come “angelo, splendido, brillante, meraviglioso, dal grande cuore e amato da tutti” equivale a dichiarare che solo la gente perbene e irreprensibile merita giustizia, mentre gli altri, in fondo, “se la sono meritata” in quanto cattivi o moralmente deprecabili. Peccato che il Male non faccia distinzioni. “Credevo che fossimo andati oltre le bugie e le rovinose rappresentazioni dei nostri personaggi, ma la serie contiene bugie orribili e palesi. Posso solo credere che sia stato fatto apposta” ha scritto Erik Menéndez in un comunicato diffuso dalla moglie Tammi su X. Ed è questo l’aspetto più destabilizzante della serie, insieme all’affastellarsi di risposte, che, sommandosi, finiscono per contraddirsi a vicenda. Per uno spettatore abituato (nella finzione) a conoscere sempre la verità e (nei programmi true crime) a lasciarsi guidare dagli autori, non c’è condanna peggiore. Sarebbe stato facilissimo (e forse molto più comodo) per Murphy e Brennan investire sull’innocenza oppure sulla colpevolezza dei fratelli Menéndez.

Invece la verità ultima (e inaccettabile) è che non sapremo mai davvero (o comunque con ragionevole certezza) cosa è realmente successo fra le mura di quella casa. E nemmeno chi, fra Lyle ed Erik, fosse l’elemento dominante. Al massimo possiamo riflettere sulle parole di un altro Menéndez, il poeta e aforista spagnolo Fernando, secondo cui “la malvagità dei parenti può arrivare ad essere una perfezione umana.”