PHOTO
Charles Peccia Galletto e Laure Calamy in Mon inséparable
Nel momento di massima tensione, Mon inséparable (presentato nella sezione Orizzonti a Venezia 81) sembra fare una furbata o perlomeno adotta una mossa facile: lascia che Mona, la protagonista, vomiti tutto addosso al suo amante, e per tutto s’intende il dolore accumulato negli anni, la frustrazione per non sentirsi all’altezza della situazione, la verità più inconfessabile di tutte. Mona è una madre giovane, ha cresciuto da sola Joël, il figlio disabile che, a trent’anni, si è innamorato di una ragazza come lui, al punto che i due annunciano di aspettare una creatura. La preoccupazione della madre esplode, il legame simbiotico con il figlio vacilla, il conflitto diventa lacerante.
Quando arriviamo, insomma, all’apice della tensione, Mona urla l’indicibile: “Volevo un figlio normale”. È lei stessa a usare quella parola “proibita”, consapevole di quel che comporta (l’altrui comprensione che in un attimo può trasformarsi in compassione non richiesta) ma anche dei trent’anni alle spalle (un rapporto “esclusivo”, massima espressione della cura, della dedizione, dell’amore), e la regista Anne-Sophie Bailly non fa niente per addomesticare il furore e la disperazione di questa donna che si porta addosso il peso del mondo.
Laure Calamy è sempre stupefacente nel calarsi in questi ruoli di donne ai margini della piccola borghesia: lo smalto scolorito sulle unghie, il passo irrequieto sulle zeppe, il vizio del fumo, la consuetudine a un mondo – quello della disabilità – che le era precluso e a cui si è dovuta avvicinare per sopravvivenza sono dettagli che le permettono di cesellare un ritratto preciso e appassionato, lontano dalla retorica e dall’enfasi.
Urla spesso, Calamy, in Mon inséparable, e lo fa senza enfasi gratuita (il litigio nel ristorantino sul mare) ma l’isteria è mitigata dall’empatia e il risultato è puntuale, complice anche la chimica con Charles Peccia Galletto, mai compiaciuto nel descrivere un ragazzo “lento” senza ricorrere a trucchetti. E il film segue questa coppia, si attaglia ai loro bisogni, con una regia intelligente nel mettersi un passo indietro e nell’aprire spiragli di complessità tanto in Mona (il desiderio sessuale, la naturalezza con cui prende in braccio la figlia dell’ex per cui è un’estranea, il silenzioso riconoscimento nell’esperienza della futura consuocera) quanto in Joël (la fuga alla parata, gli sguardi con il poliziotto comprensivo, la tensione poetica). Un film dritto e sensibile, melodrammatico ancorché pieno di speranza.