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Meglio non essere nessuno piuttosto che essere diverso. Solo così si può sperare di sopravvivere al clima di odio vigente ai tempi dell'apartheid, con il quale i giovanissimi protagonisti di Moffie si trovano a crescere e a diventare uomini.
È (non solo) un film di formazione il quarto lungometraggio di Oliver Hermanus, presentato a Venezia 76 nella sezione Orizzonti, che sfugge in parte gli stereotipi del genere affidandosi a un'accurata ricostruzione storica del periodo.
Siamo in Sudafrica nel 1981 e tutti i ragazzi bianchi che hanno compiuto sedici anni sono chiamati al servizio di leva militare: si devono difendere i confini con l'Angola sconfiggendo selvaggi neri e nemici comunisti.
Ma la guerra rappresenta la minaccia minore per il protagonista Nicholas (Kai Luke Brummer), soprattutto quando sente nascere un legame affettivo con Stassen (Ryan De Villiers), suo commilitone. Più forte di tutte le altre, infatti, è la paura di essere etichettato "moffie", termine dispregiativo per gay in lingua Afrikaans.
All'interno di un'esercito e di una società improntati all'odio, i moffie sono trattati alla stregua di nullità, esattamente come i neri, spediti in reparti speciali per essere "curati" e, di fatto, annullati come persone. Meglio rendersi invisibili, dunque, come finisce per fare Nicholas e chissà quanti altri come lui.
Hermanus affronta tematiche difficili, sia nella messa in scena che nell'acquisizione. Tutto sommato, centra l'ambizioso bersaglio, ma il suo non è un tiro perfetto: scade a tratti nel didascalico, seppure mai con cattivo gusto.
La visione è consigliata, ad ogni modo, anche per recuperare un periodo storico come quello scelto e rappresentato, altrimenti di rado considerato per soggetti sul grande schermo. Un buon lavoro, con qualche piccola riserva.