PHOTO
Misericordia di Emma Dante - Foto Marie Gioanni
Il mare spinge, anche da sotto al terreno. La montagna urla, franando di tanto in tanto. Arturo gira, gira, gira su se stesso senza fermarsi mai. Arturo è la vita, nella sua forma più infantile e ferina, figlio di una donna – Lucia – che aveva deciso di scappare con lui in grembo. E che invece è finita negli abissi dopo un femminicidio.
Figlio della miseria e della violenza, ora il ragazzo (Simone Zambelli) ha 18 anni. E da quando è nato a prendersi cura di lui in quel piccolo borgo marinaro nel trapanese – Contrada Tuono, tra Custonaci e San Vito Lo Capo – dove casupole in pietra grezza, rottami e immondizia formano un tutt’uno, sono da sempre Betta (Simona Malato) e Nuccia (Tiziana Cuticchio), prostitute come lo era sua madre, che ora condividono quella fatiscente baracca con una nuova arrivata, la più giovane e bella Anna (Milena Catalano).
Sullo sfondo le cave di marmo e quel poco che resta di un’antica necropoli, luoghi dove Arturo si muove allo stesso passo dei bambini e delle pecore che ne popolano ogni anfratto: nato difettoso, dalle movenze strambe, partecipa al mondo con animo diverso, guarda alle persone senza paura, invisibile tra gli invisibili e, come tutti, soprattutto tutte, in quell’angolo di mondo dimenticato da Dio deve combattere per la sopravvivenza. La speranza è nel suo sguardo puro e diverso. Perché un giorno, chissà quando, la Misericordia possa compiersi.
Dopo Via Castellana Bandiera – tratto dal suo omonimo romanzo – e Le sorelle Macaluso, la palermitana Emma Dante trasforma nuovamente in film (insieme a lei firmano la sceneggiatura Elena Stancanelli e Giorgio Vasta) una sua opera teatrale: ammantato di uno squallore poetico capace di rievocare alle prime una strana e suggestiva combinazione tra il cinema di Scola (Brutti sporchi e cattivi) e Sergio Citti, mescolati allo sguardo della premiata ditta Ciprì e Maresco – senza le derive estreme di un grottesco portato ai massimi livelli – Misericordia (in Special Screening alla Festa di Roma) “esplora l'inferno di un degrado terribile, sempre di più ignorato dalla società. Racconta la fragilità delle donne, la violenza che continua a perpetuarsi contro di loro, la loro disperata e sconfinata solitudine”, sottolinea la regista.
Ed è un’esplorazione che sfiora l’approccio etnografico e antropologico, servendosi di uno sguardo che anche grazie all’ampliamento dato dalle suggestive location riesce a restituire la tragica bellezza di un degrado incastrato nell’eternità naturale di luoghi che il teatro poteva semplicemente suggerire: la vitalità estrema dei suoi personaggi (Simone Zambelli era già Arturo anche sul palcoscenico), tra i quali spicca anche il Polifemo di Fabrizio Ferracane, pappone violento e ripugnante cieco da un occhio, contribuisce a mantenere sempre accesa la spinta tra crudeltà e tenerezza con cui il film si alimenta, abitato anche da bellissimi inserti evocativi, contrappuntati dalle musiche di Gianluca Porcu, come ad esempio quella danza improvvisata tra il dedalo di fili colorati in cui Anna prova ad entrare nel labirinto metaforico costruito da Arturo.
"Avrai, avrai, avrai / Il tuo tempo per andar lontano / Camminerai dimenticando / Ti fermerai sognando / Avrai, avrai, avrai / La stessa mia triste speranza / E sentirai di non avere amato mai abbastanza / Se amore, amore, amore, amore avrai”.