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Miracolo a Le Havre
Figurine d'Epinal, sono stati definiti da un critico in vena di equivoci sulla questione della morale al cinema, i personaggi del film di Kaurismaki. Ne vorremmo vedere tante, di figurine così. Peccato che solo il regista finlandese possieda il segreto che gli consente di trasformare quella che, in mani altrui, sarebbe una favoletta lastricata di buone intenzioni in una lezione di cinema su temi di grande attualità.
Le atmosfere sono quelle di Vita da Bohème (l'altro film francese di Aki), ma cambia il contesto. Il protagonista viene da lì, però questa volta Marcel Marx (un grandissimo André Wilms) fa il lustrascarpe nella città-porto di Quai des brumes (Alba tragica di Marcel Carné). Quando la polizia scopre un gruppo di immigrati in un container, scatta una gara di solidarietà fra gli abitanti del quartiere per nascondere il giovane clandestino che vorrebbe raggiungere il fratello a Londra. Piccoli bottegai dal cuore d'oro e derelitti emarginati contro borghesi spioni e tutori della legge (ma c'è anche un commissario pronto a chiudere un occhio per amore di un'ex).
Kaurismaki stempera il realismo poetico d'antan con il fatalismo tipico della sua visione del mondo. Che questa volta, però, non prevale. La rivincita dei diseredati, che evoca l'ottimismo di Zavattini, è un'opzione filmica tra le possibili, un appello alla resistenza contro l'ottusità del mondo, affidata alla parte sana di una società irrimediabilmente malata. Come la moglie del lustrascarpe (Arletty!), che un “miracolo” strappa a un destino apparentemente segnato, senza che la trovata risulti zuccherosa o fuori luogo. Merito della fiducia assoluta nel cinema che consente a Kaurismaki di osare l'inosabile, sfidando la realtà sul terreno della mozione degli affetti. Il vero miracolo, in fondo, è quello di un film dove non c'è una sola inquadratura di troppo, una battuta superflua, un dettaglio fuori posto. Immenso Kaurismaki, che ha avuto l'ardire di fare un film massimalista travestito da racconto minimalista.