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Mio papà
Il dilemma dell'uovo e la gallina si ripropone, con i dovuti distinguo, anche al cinema: viene prima la forma o il contenuto? Il paradosso, com'è noto, non ha soluzione, o meglio lo si risolve solo ammettendo la necessaria compresenza di entrambi: non c'è uovo senza gallina, e viceversa.
Gran parte dei film italiani sbagliano perché scelgono: alcuni hanno solamente l'uovo, altri solo la gallina. Se l'uovo è la forma e la gallina il contenuto, Mio papà di Giulio Base è una gallina che fa tanti coccodè. Alcuni, va detto, necessitano d'attenzione.
Lasciamo perdere il percorso di maturazione di un uomo (Giorgio Pasotti, anche co-sceneggiatore), che da eterno ragazzo deve imparare a fare il padre: quello è un tasto ampiamente battuto, un cliché della narrazione cinematografica. Però il coraggio di ribadire - oggi che il dibattito sulle adozioni omo dilaga tra isterie e opposti conformismi d'opinione - che un bambino ha bisogno di una mamma e di un papà quali insostituibili architravi della sua formazione merita di essere sottolineato. Se non altro come provocazione.
Così come è inedito lo sguardo posato sulle figure dei patrigni, sempre più numerosi in un'epoca di mamme separate, divorziate e auto-fecondate che decidono di dare in delega, ai loro partner, la paternità dei propri bambini. I patrigni assolvono spesso alle funzioni che di norma spetterebbero ai padri naturali, mentre magari quest'ultimi non hanno tempo né voglia di occuparsi dei figli. Eppure per lo Stato vale solo la relazione anagrafica, quella stabilita dal sangue. E che succede se la madre e il patrigno si separano? Che succede se la donna muore e i figli, che per anni hanno imparato a vivere e ad amare questi papà acquisiti, vengono riconsegnati obtorto collo ai padri naturali? Parliamone.
Ma se dal parlare si passa al vedere, inteso non come mero esercizio di un senso, ma come esperienza che dall'occhio circuita tra cuore e cervello, ecco che Mio papà abbonda di idee (di coccodè) e manca di concetti (che è il modo in cui le idee acquistano forma: le uova). Non c'è immagine che resti, si allunghi, abbia profondità. E' assente un progetto di messa in scena, un modo di dire le cose "a modo". Il film ha un approccio (di)mostrativo inseparabile dalla scrittura, di cui finisce per sottolineare le rigidità: i personaggi restano sulla carta (e gli attori accartocciati), le emozioni seguono la scaletta, la drammaturgia ha l'impianto della pagina 777 del televideo (persino il colpo di scena - o colpo basso? - è derivativo: ne abbiamo visto uno uguale in un film americano di qualche anno fa, One Day...).
E il capitale dell'immagine, la sua opaca e ambigua facciata, dilapidato nella trasparenza senza contorno né sfondo dell'iconismo televisivo. Laddove i coccodè dominano e con le uova si fanno le frittate.