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Mimì - Il principe delle tenebre (credits: Salvatore Liguori)
C’è una lunga storia dietro l’esordio nel lungometraggio di Brando De Sica, che arriva dopo tre premiati cortometraggi e due regie non accreditate accanto al padre Christian (lasciamo da parte i primi passi come attore, ormai risalenti a vent’anni fa). E non è tanto quella di una delle famiglie reali del cinema italiano quanto quella di un cinefilo onnivoro, amante dell’horror classico e del nero italiano (piuttosto, sarebbe interessante sottolineare che gli ultimi rampolli della dinastia, lui e il cugino Andrea, sono registi affascinati dal genere). D’altronde nel curriculum di De Sica ci sono un’esperienza da aiuto di Pupi Avati (il sottostimato Una sconfinata giovinezza, mélo gotico bolognese) e una da sound designer per Pinocchio di Matteo Garrone: si sente la lezione di questi due autori che nelle crepe della realtà intercettano i battiti di cuori irregolari, che nella favola scoprono quel sentimento che si staglia tra l’osceno e il tragico.
Con Mimì – Il principe delle tenebre – presentato fuori concorso a Locarno, vincitore di una menzione speciale al Sitges, festival di riferimento dell’universo fantasy – De Sica non dimentica quella strada ed espande il discorso di Sono solo fantasmi, ultima regia di Christian: da quella crepuscolare commedia partenopea, che nel finale scopriva una commovente fantasmagoria familiare, il quarantenne regista recupera l’idea di una Napoli soprannaturale, epicentro di leggende (dalla presunta tomba di Dracula, che si dice sia nel chiostro di Santa Maria la Nova, alle “anime pezzentelle” che affollerebbero il cimitero delle Fontanelle), ormai troppo decadente e umbratile per potersi definire ancora magica o velata.
Una città-mondo fotografata nei suoi angoli più inquietanti e perfino mistici, dove i pizzaioli convivono con i freaks, le bocche sembrano rivestite d’amianto e le vecchie pippano cocaina nei salotti borghesi, i tatuatori hanno le sembianze di creature mostruose e le ragazzine cercano un’alternativa al dolore del mondo.
Al centro due outsider: lo sono per la comunità alla quale appartengono loro malgrado e lo sono del filone che dovrebbe rappresentarli meglio, cioè il teen drama poiché entrambi young adult. Sono l’antieroe titolare (Domenico Cuomo, indimenticato Cardiotrap di Mare fuori: e di quella serie Mimì è quasi una variante gotica), adolescente orfano nato con piedi deformi, che lavora in una pizzeria a Napoli, subisce le angherie dei bulli di quartiere; e Carmilla (Sara Ciocca), una giovane ragazza convinta di essere una discendente del conte Dracula.
Sin dalle prime sequenze, Mimì non nasconde le suggestioni pop e postmoderne di Nicolas Winding Refn, con movimenti eleganti e luci acide che squarciano lo squallore per rinvenire il metafisico: è una dichiarazione d’intenti che si slancia dall’interno domestico con Mimmo Borrelli e Abril Zamora, frammenti di un’umanità questa sì velata dalla narrazione ufficiale, all’inseguimento tra auto e apecar sulle note della struggente Quei giorni insieme a te, che Ornella Vanoni intonava sulle immagini del massacro mortale della maciara Florinda Bolkan nel cult Non si sevizia un paperino di Lucio Fulci.
Il limite è che, nel suo essere sfacciatamente citazionista, De Sica finisce per scoprirsi derivativo, perdendo quota proprio nella seconda parte piuttosto esplicita, quando l’impianto metatestuale si svela troppo (“Devi accendere un cero a Lovecraft!”) e la cinefilia si riverbera come dato biografico, con la vicenda di Nosferatu il vampiro di Murnau evocata anzi convocata per precipitati allegorici (la causa degli eredi di Bram Stoker come sintomo dell’ossessione per il personaggio, la leggenda sul presunto vampirismo del protagonista Max Schreck).
È apprezzabile che De Sica e i suoi produttori (Indiana Production, Bartleby Film con Rai Cinema) non rinuncino a un ragionamento organico a una certa idea industriale sistemica (Mimì come nuovo capitolo di una narrazione antirealista che congiunge i Manetti e Mainetti, trascende il filone di Gomorra, si riallaccia alla tradizione dei B-movie e dialoga con il genere fuori confine), ma forse in questa opera prima la passione prevale su tutto, il gore appare come una svolta ineluttabile quanto forzata, il mélo si riverbera nelle pieghe di una storia che ha il suo ritmo nella persistenza dell’umano.