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Uomini che odiano le donne. Maschilismo, perversione, la figura femminile che diventa un oggetto di piacere. Nessuna etica, nessuna moralità. Le intenzioni erano chiare fin dal titolo per lo scrittore Stieg Larsson: andare oltre il limite, sfidare il lettore a immergersi in un universo cupo, violento, sessualmente esplicito. Sulla carta era un’operazione non adatta a tutti. Risultato? Milioni di copie vendute, una trilogia di bestseller (Uomini che odiano le donne, La ragazza che giocava con il fuoco e La regina dei castelli di carta).
Alla morte di Larsson le redini del progetto sono state prese dal giornalista David Lagercrantz, con altri due romanzi (Quello che non uccide e L’uomo che inseguiva la sua ombra). E il cinema riparte da qui, dal quarto capitolo della serie Millennium. Difficile raccogliere l’eredità lasciata da David Fincher con il suo Millennium – Uomini che odiano le donne (a sua volta reboot dei tre film svedesi che avevano lanciato la regista Noomi Rapace): la geometria delle inquadrature, l’immagine di una Svezia in qualche modo “americanizzata” (le riprese erano state realizzate a Montreal), l’oscurità che incombeva sulla nazione. La macchina da presa non distoglieva lo sguardo dai momenti forti, dal sangue e dalle scene “d’amore”.
Invece il nuovo Millennium – Quello che non uccide viaggia con il freno a mano tirato. Ha paura di mostrare, di urtare il suo pubblico. Si propone come un prodotto di massa sempre attento a non disturbare. La bisessualità di Lisbeth Salander è solo abbozzata, i suoi problemi famigliari passano in secondo piano.
Il reporter Mikael Blomkvist (personaggio chiave delle avventure su carta) qui è solo un gregario anche un po’ sciocco. Faccia d’angelo, sempre in tiro, poco incisivo. E Salander si muove come se fosse una spia in uno dei tanti capitoli della saga di Jason Bourne o di Mission: Impossible. Sempre pronta a menar le mani, guida come un pilota su circuito, parla pochissimo.
Da icona femminile, protettrice delle indifese, reietta e con una personalità borderline, Salander si trasforma in una delle tante eroine da grande schermo. Scatena il finimondo proprio come i suoi colleghi “al maschile”, dal Daniel Craig di 007 a Matt Damon e Tom Cruise. Perde la sua personalità misteriosa, combatte come una macchina da guerra.
Il regista Fede Alvarez non le concede un attimo di tregua, costruisce l’intero film sul suo corpo. Pochi dialoghi, tanta azione. Camera a mano, dolly, riprese con i droni: Alvarez dirige con grande dinamismo, con scarsa attenzione per i tormenti interiori. A salvarsi è la fotografia: il bianco acceso della neve si oppone al nero di una società selvaggia. E naturalmente la storia continua…