È il primo lungometraggio di finzione per Christina Vandekerckhove, Milano, in Concorso ad Alice nella Città, ed è incredibile osservare la maturità espressiva di questa regista fiamminga che si era già distinta sia nel documentario (Rabot, sulle persone che abitano in un complesso di case popolari prossimo alla demolizione) e nella forma breve (Mia, incentrato su un’infermiera a domicilio).

Milano è il nome di un ragazzino sordo, che si esprime a gesti e, nei momenti di difficoltà, decide di togliersi l’apparecchio acustico e immergersi nel vuoto. Sono passaggi drammatici, che respingono il pietismo e ci invitano a metterci accanto al desiderio di alienazione di un bambino che ha già visto troppe cose. È molto affascinante il lavoro compiuto dalla regista insieme all’esordiente Basil Wheatley, meraviglioso per la generosità, l’audacia, la tenera spavalderia di un’interpretazione che è il risultato di un patto fondato sulla fiducia e sull’investimento emotivo.

Milano cresce con il padre disilluso e incapace di emanciparsi da un quotidiano al ribasso (Matteo Simone, a tratti davvero struggente nell’incarnare l’impotenza e il fallimento): il rapporto tra i due, apparentemente votato all’incomunicabilità e in realtà meno facile da incasellare, è il cardine di questo film serio e straziante, evidentemente nel solco dei Dardenne, dove il lessico familiare si esprime attraverso il dialogo incidentato tra la fragilità di un giovane uomo tormentato sempre sul tracollo emotivo e la tenacia di un bambino che è un naturale testimone di speranza.

Milano
Milano

Milano

In questo senso è interessante che sia una donna a incaricarsi dell’universo maschile, lasciando che le donne siano quasi impossibilitate ad accadere alla complessa e sfaccettata relazione tra i due maschi, che sia la madre biologica che il bambino vuole rintracciare (espediente prevedibile in un racconto che si propone di seguire un ragazzino senza figura materna, ma anche necessario per accompagnarlo in una difficile avventura formativa) o le due vicine di casa benestanti che si prendono cura di Milano consapevoli che quel padre lacerato non può farcela da solo (e anche, forse, per sentirsi in pace con la coscienza di classe).

È un film pieno di luce che cerca in tutti i modi di tagliare il buio e illuminare di grazia un destino segnato (la fotografia è di Frederic Van Zandycke), capace di sprazzi di gioia e di un dolore che non lascia scampo (la parte finale è devastante).