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Dopo che la sorella decide di mandare sé stessa e i genitori al creatore, la non stabilissima Dani (Florence Pugh) si accolla al riluttante fidanzato Christian (Jack Reynor) in un viaggio in Svezia, alla volta del villaggio di un compagno di corso.
Da novant’anni lì si tiene una festa di mezz’estate antropologicamente molto interessante, ovvero perfetta per una tesi di laurea, ma i villici hanno in serbo più di qualche sorpresa, sopra tutto, alla incolumità degli studentelli americani in visita: è Midsommar – Il villaggio dei dannati (sic), opera seconda di Ari Aster, già sopravvalutato autore di Hereditary (2018).
Qui frulla eutanasia e tradizione, sette e buen retiro, handicap e premonizione, identità e crudeltà, streghe e cafoni, tara e destino, nonché l’oggi irrinunciabile women’s empowerment, riversando il tutto in una cornice labilmente horror, al più stramba, ma nemmeno troppo: Midsommar annoia pressoché uniformemente per quasi due ore e mezza, fornendo nuove immagini al concetto di “dilatazione” e nuovi sinonimi a "presuntuoso".
Per fortuna, si fa per dire, il fido Aster licenzierà presto un director’s cut di mezz’ora più lungo, tanto per gradire. Se i malcapitati studenti americani non supererebbero il più elementare Invalsi, a irritare non è tanto la sospensione dell’incredulità, ma l’abbandono alla stupidità analogamente richiesto allo spettatore: ci sono, ehm, svolte di sceneggiatura che denunciano un interessamento neurologico.
Per tacere, del décor bucolico, popolato da sosia di Benny Hill, infestato da mammane e ingentilito da epigoni della Manson Family: ti aspetti, questo sì, che qualcuno se ne venga fuori con un “ricoolaaa!”, davvero non sfigurerebbe.
Tutto il resto è folklore e floricoltura, a inghirlandare questo para-horror agreste e post-hippie: chiamatelo Midsonno – Il villaggio dei rintronati.