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Midnight in Paris
Woody Allen giura che il suo modo di lavorare è lo stesso anche quando cambia paese. Sarà. Eppure il risultato ne risente, come se il suo cinema sempre uguale - per traiettorie, strutture, personaggi - finisse per rivelare ogni volta un sapore nuovo, genuino, profondamente connesso all'ambiente in cui opera. Così la Ville-lumière ha fatto indubbiamente bene a Midnight in Paris, anche se è un film che ha già girato, una volta, altrove. Da Io ed Annie alla Rosa purpurea del Cairo, da Manhattan a Pallottole su Broadway.
Ma girare lo stesso film, altrove, fa una gran differenza: i lavori europei di Woody - e questo più di ogni altro - dimostrano l'insolita capacità camaleontica del regista, che non cambia mai pur senza ripetersi. Come una spugna Allen assorbe ogni volta gli elementi di novità offerti dal milieu.
Qui Parigi è la quinta e la scena di una commedia che ruota attorno alle idiosincrasie di uno sceneggiatore hollywoodiano con velleità da scrittore. Tipico alter ego di Allen, Gil (Owen Wilson, bravo come sempre, ma il complimento va condiviso con l'intero cast) deve dividersi tra la passione per l'arte - di cui crede di sapere tutto ciò che è precluso agli altri - e l'amore per la futura sposa Inez (Rachel McAdams), più concreta e poco disposta ad assecondare la vena "Rive Gauche" del compagno. In vacanza a Parigi, sono entrambi attratti da quello che non possiedono e che presto finirà per dividerli: lei da un professore fascinoso ma pedante (Michael Sheen rispecchia un altro carattere tipico della commedia alla Allen, quella del professionista della cultura tanto tronfio quanto arido, come lo era già il critico cinematografico che sproloquia di Fellini in Io ed Annie); lui da un'epoca e da un luogo in cui può sentirsi finalmente a suo agio - gli anni '20 e la Parigi del Charleston, di Cole Porter e Scott Fitzgerald, in cui magicamente ripiomba ogni notte.
In uno traslazione tipica dei lavori di Allen, le dimensioni del sogno e della vita finiscono per confodersi, ma non confondono lo spettatore, tale è la capacità del regista di traghettarci senza smarrirci dall'una all'altra sponda del cinema. Con estrema naturalezza, come uno Zelig, il suo film cambia veste di continuo senza perdere la fisionomia leggera e trasognata. Nostalgica soprattutto, di quella nostalgia intesa come fuga dalla capacità di accettare il proprio tempo. Non c'è rimedio ma i tanti palliativi dell'arte e le sorprese del Caso, che gioca come sempre un ruolo fondamentale nel racconto.
Il caso e la magia sono le armi di un cinema assai maturato, capace di disinnescare la tragedia della vita con mezzi diversi da quelli della solita ironia apocalittica. La sceneggiatura gioca sui paradossi, ma - tra una Carla Bruni che fa la guida turistica (proprio lei, l'italiana di Francia) e un Bunuel a cui viene suggerita la trama de L'angelo sterminatore e ci resta come un allocco - non perde di credibilità. E la serietà senza gravità di Allen sposa alla perfezione la francese reverie, il sogno a occhi aperti. Per non dire di come riesce con poche battute e ancor meno accorgimenti a restituirci un'epoca - gli anni '20 prima, la belle epoque poi - e uno spazio - la Ville-lumière - come fossero da sempre coordinate interne al suo cinema, e non corpi estranei da integrare.
L'aspetto veramente nuovo della sua senile maestria - per un verso ancora contrariata, ombelicale, superba e verbalmente incontinente: a farla breve costruita intorno a se stessa - è propria questa straordinaria ritmica interna al suo cinema capace di adattarsi con estrema facilità a spazi e tempi che non sono i suoi, arricchendosi, colorandosi, mutandosi. C'è persino una morale in tutto questo: la perfezione non è di questo mondo, ma sapersi adattare agli imprevisti dei giorni può riservare belle sorprese. E magari farci scoprire, in maniera paradossale e inconsapevole, che quell'età dell'oro che avevamo sempre cercato chissà dove, era lì ad un palmo di naso. Il cinema di Woody ha di sicuro trovato la sua.