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Cevenne, Francia montuosa centro-sud, Michael Kohlhaas (Mads Mikkelsen) è mercante di cavalli, bello, agiato, la moglie Judith (Mélusine Mayance) e la figlia Lisbeth (Delphine Chuillot). Tutto bene, finché il barone non gli taglia la strada: dazio da pagare, due cavalli in pegno, la giustizia è ingiusta, la principessa non intercede, la moglie ambasciatrice porta pena e viene uccisa a palazzo. Michael Kohlhaas non digerisce, non può, prende le armi, un pugno di servi e contadini e mette a ferro e fuoco il paese. Giustizia è fatta? Quando incontra Martin Lutero (Denis Lavant), Michael vacilla...
Dalla celebre novella omonima di Heinrich Von Kleist, per Kafka la meglio cosa della letteratura tedesca, Arnaud des Pallières porta Michael Kohlhaas in Francia – non è l'unico cambiamento, dai personaggi (la figlia non c'è nel libro) alla trama fioccano – mantenendosi fedele al mood esistenzialista, allo stile distaccato e al tema giustizialista, ma stralciando il fantastico in favore del realismo, se non materialismo tout court. L'ottimo Mikkelsen fa pensare a Valhalla Rising di Refn, mentre la camera di des Pallières sceglie la pars pro toto: i piedi per la corsa, il sangue per la morte, Michael per l'uomo che si fa giustizia da solo e diviene il nemico pubblico numero uno, il terrorista anticasta.
Forma a tratti superba, con luce e tagli rubati alla tela, echi dai Sette samurai di Kurosawa, e poi il focus sul libero arbitrio: Kohlhaas non si inginocchia tutto il giorno, Kohlhaas è protestante, legge la Bibbia nella sua lingua, comprende, anzi, fraintende, e alza la testa sul mondo. Troppo alta, invero, e le conseguenze sono devastanti: la figlia non lo perdona, anzi, non lo capisce, mentre Michael si consegna alla piatta, meccanica e ineluttabile tragedia di un uomo che volle farsi eroe. Eroismo no future, il suo, ma il film, in Concorso a Cannes 66, ha un nobile presente.