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Melancholia
Il mondo finisce, ma non è la fine del mondo per la bella e depressa Kirsten Dunst: se il pianeta blu è una pillola blu, purtroppo Lars von Trier non l'ha mandata giù.
Almeno a parole: sproloqui antisionisti, antisraeliani e antisemiti al festival di Cannes, e Melancholia suicidato sull'altare del colore giornalistico, della polemica cineapatica. Ridicolo, in ogni caso, dichiarare Lars persona non grata al festival francese, ma torniamo al film, che ne val davvero la pena. Melancholia ci regala la meglio ouverture della settima arte ultima scorsa: sulle note del celeberrimo prologo wagneriano del Tristano e Isotta, apre una sinfonia meccanicamente al ralenti, un indice immaginifico di quel che sarà, con una sposa prigioniera, una madre e il suo bambino che sprofondano in un campo da golf, un pianeta blu e comunque saturnino pronto a fagocitare la Terra.
Tableaux vivants a bulino nella memoria melanconica di Dürer, ma incisi nella materia di cui sono fatti i sogni, quelli terapeutici, ovvero chimici: la reazione è familiare, il ph fisiologico a un'implosione autobiografica e filmografica che ordina il caos delle precedenti opere di Trier. Il regista porta la sua creatura a rassegnarsi, anzi, consegnarsi a una fine dolente e curativa, ineluttabile ma non straziante, come l'originaria ambivalenza del pharmakon vuole.
I reagenti di questa soluzione insoluta sono gli attori: magnifici Kiefer Sutherland (John), Charlotte Rampling e John Hurt, e soprattutto le due “sorelle coltelle” Kirsten Dunst (Justine, protagonista del primo movimento sinfonico: da antologia la sua tintarella di “luna”...) e Charlotte Gainsbourg (Claire, secondo movimento), tra cui Lars divide i suoi Sussurri e grida, mutando mood: glacialità pittorica per la Dunst, realismo emotivo per la Gainsbourg. Fino alla confessione che costa cara, ancor più per un control freak patentato quale von Trier: l'ex Mr. Dogma mette alla gogna la (im)possibilità del controllo, sia sociale (il matrimonio di Justine) che scientifico (i calcoli di John). Rimane in piedi, magistralmente tracciata tra fantascienza e escatologia, autobiografia e psicoterapia, la rotta di collisione su un'attesa senza sorprese, melanconicamente – Justine – pronta a tutto perché autoconcessa al niente. E in medio stat Lars von Trier. Che dire, se (s)parlasse di meno e continuasse a girare così, non ci sarebbe apocalisse (mediatica) che tenga, ma solo grande cinema.