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Mektoub, My Love: Canto uno
"Quant’è bella giovinezza
che si fugge tuttavia!
Chi vuole esser lieto, sia,
di doman non c’è certezza".
E' davvero sorprendente, magico, trovarsi ogni volta davanti a (dentro) un film di Abdel Kechiche. Equivale a testimoniare il passaggio della vita nell'atto stesso del suo compimento. L'attimo di esistenza che fagocita il tutto, quel misto di carnalità e emozione che nessun altro cineasta al mondo riesce a (ri)produrre sul grande schermo.
"Questo è un film anarchico, nel senso più nobile del termine, inteso cioè a rompere le catene della gerarchia".
Ed è proprio così: rompendo le catene di un linguaggio, di una grammatica filmica accomodata su gradini di scale di pensiero assuefatte a certi dettami, Mektoub, My Love: Canto uno (in concorso a Venezia 74, con il Canto Due attualmente in post-produzione...) conferma ancora una volta - anche dopo lo straordinario La vita di Adele - le possibilità di un cinema/vita viscerale e autentico, ma spogliato di qualsiasi tipo di riflessione aprioristica in termini di artificio o calcolo.
Siamo chiamati, dunque, a vivere in simbiosi con il racconto, che sembra compiersi nel momento stesso in cui Kechiche lo filma. E allora torniamo al 1994, all'estate in cui il giovane Amin (Shaïn Boumedine), aspirante sceneggiatore di stanza a Parigi, torna per le vacanze nella sua città natale, a Sète, nel sud della Francia. Ritrova la famiglia, il cugino Tony (Salim Kechiouche) e la sua migliore amica, Ophélie (Ophélie Bau), e trascorre le giornate tra la spiaggia - dove conosce nuove ragazze in villeggiatura - e il ristorante di specialità tunisine dei suoi genitori, i bar del quartiere e le discoteche.
E' l'incontro tra il fato (mektoub) e l'amore, l'esplosione della giovinezza nel suo momento più spensierato e vitale, la gioia di corpi e volti inseguiti e contemplati, sudati per un amplesso o per danze sfrenate, bagnati dal mare dopo giochi in acqua con il tramonto che si staglia all'orizzonte.
Il regista Abdellatif KechicheKechiche, che prende spunto dal romanzo La Blessure la vraie di François Bégaudeau (autore già portato sullo schermo da Cantet con La classe), non stacca mai lo sguardo dal corpo/anima che è al centro di tutto, ci fa dimenticare che anche lui è lì, si prende (come sempre) tutto il tempo che vuole (il film dura tre ore, poteva durare anche un mese) e dilata le coordinate temporali dell'occhio-cinema perché sa che solo così, solo in questo modo, il nostro assistere si può trasformare in un coesistere unico e irripetibile, aggiornando quel mistero travolgente che anima ogni suo lavoro, figlio di un naturalismo che tende sempre più a sbarazzarsi del suffisso per farsi natura.
Natura viva, imperfetta e in movimento, popolata da giovani dionisiaci pronti a buttarsi tra le braccia di ciascuno (oltre a Tony, la Céline interpretata da Lou Luttiau) e da ragazze/i che invece si lasciano soggiogare dall'amore (inteso nella sua accezione meno carnale) e dalla bellezza che li circonda.
Amin, allora, non può non essere il giovane Kechiche, che prova a immortalare - attraverso la scrittura e le fotografie - tutto quello che gli sta passando sotto gli occhi. Per regalarci (poi, un domani, oggi) questo straordinario inno alla vita che illumina di nostalgia le meraviglie della giovinezza.
Un capolavoro.