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In una modesta palazzina di Haifa, in Israele, Waleed e Jalal, si trovano ad essere uno il dirimpettaio dell’altro. Dopo una guardinga disamina iniziale, contrassegnata da reciproche supposizioni e convincimenti, i due instaurano un’improbabile e curiosa amicizia. Una, per così dire, “strana coppia” di cinematografica memoria.
Waleed (Amer Hlehel) è un aspirante scrittore in crisi creativa, con due figli, fieramente palestinese, ma affetto da disturbi depressivi che lo vincolano ad essere frustrato e poco incline alla socialità. Jalal (Ashraf Farah), invece, è un truffatore di piccola entità che vive di espedienti, simpaticamente spavaldo ed anch’esso padre di famiglia, seppur con un'amante.
Dapprima agli antipodi, coglieranno l’idea di Waleed di voler seguire il vicino nella sua routine criminale per la realizzazione di un romanzo, per conoscersi nell’intimo e concedersi a confessioni e gravose richieste.
Miglior sceneggiatura a Un Certain Regard al Festival di Cannes 2022, Mediterranean Fever è il secondo lungometraggio della regista Maha Haj, il cui sguardo femminile diviene linea guida di una raffigurazione non superficiale e stratificata di un certo tipo di mascolinità arabica. Opposti nell’involucro ma speculari nella sostanza, il duo incarna, a suo modo, inedite sfumature di machismo poco convenzionale, dove a venir fuori con chiarezza sono più le debolezze che i fieri connotati. In un rovesciamento delle gerarchie familiari, entrambi appaiono depotenziati nel microcosmo domestico ed affetti da una, non molto celata, cagionevolezza emotiva.
Il canovaccio su ci si struttura è quello caratteristico della black comedy: umorismo e sagacia per far confrontare gli spettatori con esperienze umane di difficoltà e con sottotesti sociali che trapelano in un gioco di presenza-assenza ed interconnessione.
Gli effetti sulla salute mentale intaccata dalla depressione, che provoca stati continui di insoddisfazione anche nelle attività quotidiane più comuni o il riconoscersi inadeguati nella propria comunità, si intersecano con una spinosa problematica identitaria. Perché, in fondo, tutto si ricollega ai vincoli morali e psicologici ereditati dalla questione palestinese vissuta ed introiettata da cittadini arabi nello Stato d’Israele.
Il conflitto arabo-israeliano, infatti, permea l’intera narrazione, l’avvolge, facendo affiorare, grazie al valore testimoniale dell’immagine, un sostrato profondo di memorie collettive e sensazioni. Ed è in questa forza analitica di riflessione che la “febbre mediterranea” dell’intestazione si fa parola chiave e concetto riassuntivo.
Sì, perché la malattia ereditaria evocata dal titolo, distintiva delle persone che vivono nell’area mediterranea, perde la connotazione di disturbo fisico per palesarsi piuttosto come macigno psicologico e politico dell’essere palestinese in terra “straniera”.
Un classico “buddy movie”, insomma, dove però sul finale, la convinzione di aver intuito il “come andrà a finire” viene disillusa, rimettendo al centro il tema dell’infelicità e della felicità con garbata ironia cecoviana.