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Salha Nasraoui e Rayen Mechergui in Mé el Aïn (Who Do I Belong To) di Meryam Joobeur
Già autrice di apprezzati cortometraggi, tra cui Brotherhood premiato al Toronto Film Festival e per il quale è stata nominata all’Oscar, la tunisina-canadese Meryam Joobeur debutta nel lungometraggio con Mé el Aïn (titolo internazionale: Who Do I Belong To, “a chi appartengo”), in Concorso a Berlino 74. E rivela subito uno sguardo forte, in bilico tra l’osservazione della condizione umana e la trasfigurazione onirica della realtà, trovando il baricentro nella sua protagonista, Aïcha, una madre di famiglia che fa sogni premonitori.
Questa dimensione profetica sembra avvolgere tutta la storia, con i primi piani molto ravvicinati che quasi fanno sfumare il mondo circostante, come fossero pezzi scontornati dalla realtà altra di Aïcha e riconfigurati in un mondo che via via collima sempre di più con quello premonito. La donna, che vive in una fattoria nel nord della Tunisia con il marito Brahim e il figlio più piccolo, è squarciata nell’animo da quando i figli più grandi si sono arruolati nell’ISIS. Un’assenza che interroga il quotidiano dei genitori, mentre il bambino ben voluto da tutti è una presenza terapeutica nel lenire le ferite. Finché Mehid, uno dei due figli, si ripresenta a casa con la misteriosa moglie incinta: il ritorno, che resta segreto, innesca alcuni eventi nel villaggio, la paura per l’ignoto si fa sempre più intensa e la madre deve fare i conti con un amore incondizionato messo alla prova.
Dopo un prologo che mette in campo il tema del presagio, Mé el Aïn si dipana in tre parti: “The Aftermath”, “A Shadow Emerges”, “Awakenings”. Sono titoli emblematici perché annunciano quel che sta per accadere: ribaltamenti dell’ordinario, ombre che offuscano le convinzioni, risvegli necessari per poter riprendere in mano la realtà. Per dare forma alla sua versione di realismo magico, Joobeur ricorre a una serie di immagini simboliche che costruiscono il subconscio della protagonista: lo schieramento di donne quasi a tableau vivant, spiagge desolate e inquinate, mele marce, tazzine con il sangue al posto della posa, un cavallo che spunta all’improvviso.
Una scelta un po’ scolastica, ma che trova un’immagine piuttosto efficace nell’inquietante figura della moglie di Mehid, muta e sempre coperta dal niqab, i cui occhi perforano chi li incrocia, a sua volta simbolo della tragedia del fondamentalismo. Un film complesso e stratificato, a volte più pensato che vissuto, e però dominato dal volto lentigginoso del fulvo Rayen Mechergui, il figlio più piccolo: nel suo sguardo c’è la mappa emotiva di chi subisce le conseguenze della guerra, dalla consapevolezza del dolore alla speranza che la nostalgia del passato sereno possa trasformarsi nella possibilità di un futuro felice.