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May December
Dopo tre topiche, ovvero il temibile La stanza delle meraviglie (2017), il timido Cattive acque (2019) e lo spento doc The Velvet Underground (2021), il regista americano Todd Haynes torna ai livelli che gli competono, con una sorta di ibrido tra Carol (2015) e Lontano dal paradiso (2002): in Concorso a Cannes 76, May December non tocca quelle vette, ma è un mélo-soap-thriller di gusto e sostanza, con una potente valenza cinematografica, ché i film cambiano la vita, anche solo il documentarsi per un biopic.
Contrappunto musicale enfatico e thriller di Marcelo Zarvos, colta fotografia non del sodale Ed Lachman bensì di Christopher Blauvelt, montaggio perfetto dell’abituale Affonso Gonçalves, May December segue Elizabeth Berry (Natalie Portman), un’attrice per lo più televisiva, che nel 2015 si reca a Savannah, Georgia, per documentarsi sul suo prossimo ruolo in un film indipendente: incarnerà Gracie Atherton-Yoo (Julianne Moore) che vent’anni prima finì in prigione e sui tabloid dell’intero Paese per una relazione, extra-coniugale, con l’allora tredicenne Joe (Charles Melton) che superava anagraficamente di due decenni buoni. A questa sensibile differenza di età fa appunto riferimento il titolo: May December.
Gracie e Joe stanno ancora insieme, lui guarda radiografie e alleva farfalle, lei fa torte che i concittadini le comprano per bontà loro, più che dei dolci, ma la relazione saprà resistere alle indagini, potremmo chiamarlo Metodo, di Elizabeth, disposta a tutto e un po’ ancora per decrittare nello stato dell’arte le ragioni ultime di quello scandaloso affair?
Elizabeth interroga, lei e lui, da lei si fa truccare, lui un po’ lo concia per le feste, e Haynes che trasforma una sceneggiatura di Samy Burch e Alex Mechanik ha l’empatia insidiosa e l’ironia lenitiva per impacchettare un crescendo hitchcockiano, in cui il MacGuffin altro non è che un peana alle sorti magnifiche e regressive del cinema, inteso quale dispositivo relazionale, congegno psicoterapeutico, trama e ordigno.
Nel finale si scotterà pure Elizabeth, mentre lo spettatore ci sguazza con un certo agio e un certo piacere: May December parte dai tabloid e arriva al metacinema quale performance, accadimento, trasformazione, giacché la mera documentazione regala all’attrice un potere di indirizzo, una facoltà demiurgica old fashioned, nel senso di femme fatale più che reporter con – lo esibisce – taccuino.
Può essere sottovalutato May December, ma è tutt’altro che malvagio: sprezzatura dotta, modi felpati, temi pe(n)santi, dall’età del consenso alle disforie della cultura di massa. Non è tutto, ma è più di qualcosa, anche per il palmares di Cannes 2023: Natalie Portman in primis, apice di un cast superbo.