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Mateo
Colombia, valle del fiume Magdalena. Mateo (Carlos Hernandez) ha sedici anni e la sua vita non è certo facile come la sua età vorrebbe; cresciuto in un ambiente povero e ad alto tasso di violenza, il ragazzo è costretto a dividersi tra lo zio Walter, malavitoso locale che si serve di lui per la raccolta del pizzo ai piccoli commercianti del luogo, e la madre, una donna dal carattere forte che cerca in tutti modi di tenere il figlio lontano da una vita criminale.
Le cose cambiano quando, per evitare l'espulsione da scuola, Mateo accetta di far parte di un laboratorio teatrale diretto da padre David (Felipe Botero), un sacerdote coraggioso - ispirato alla figura reale di Guido Ripamonti, che da anni è attivo in Colombia nel recupero sociale degli adolescenti. Ben presto, la personalità coinvolgente del religioso entusiasma i giovani attori e instilla il dubbio, in Mateo, della possibilità di una vita diversa. Tuttavia, l'altra vita, quella segnata dalla violenza e dal crimine, impersonata dallo zio Walter, non è disposta a lasciare la presa sulle proprie vittime tanto facilmente.
La regista esordiente Maria Gamboa, anche lei colombiana, batte i sentieri del neo-realismo, ma laddove sarebbe lecito attendersi un pugno di ferro, la regista colombiana adopera invece il guanto di velluto, diluendo personaggi e situazioni in stilemi da fiction o telenovela che sia. Il taglio semidocumentaristico, del resto, non riesce a imporsi per coerenza e per forza rappresentativa. Nobili le intenzioni, attuali e scottanti i temi (Don Puglisi dovrebbe ricordarci qualcosa), inefficace però, e spiace dirlo, il risultato.