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Match Point
(Doppio) delitto e (senza) castigo. Solo con qualche rimorso di coscienza, un tarlo che non permette al colpevole di godersi appieno gli agi sociali ottenuti con ciniche strategie e col crimine, "necessario" per sbarazzarsi di un'amante ingombrante (e incinta). In Match Point - racconto (a)morale ambientato a Londra - Woody Allen sa tessere una perfetta e implacabile rete di personaggi, scelte, passioni e coincidenze per dimostrare il ruolo predominante della "fortuna" sul corso della nostra vita. Ai tempi di Crimini e misfatti l'oculista ebreo macchiatosi del delitto finiva per lacerarsi la coscienza, memore degli insegnamenti del rabbino sul fatto che non si può sfuggire allo sguardo di Dio anche se si elude la giustizia terrena. La tesa e misurata regia di Match Point (con ironico contrappunto di opere liriche) implica dialoghi in cui si nomina chiaramente il Caso. L'etica (o almeno il richiamo ad essa) qui è scomparsa: regna la sola Dea Bendata (non La dea dell'amore del regista), simbolizzata dall'esemplare scena d'apertura, con la palla da tennis che esita sopra la rete. Se cadrà al di là o al di qua del "net", dipende solo dal capriccio fortuito di un universo anti-provvidenziale, privo di un disegno o un destino. Il movimento della palla – fisico ma anche filosofico – si ripete nell'ambigua scena dell'anello della vecchia uccisa. Una prova scottante se venisse raccolto dalla polizia, con somma sfortuna del killer. Ma il caso gioca paradossalmente a favore di Chris, fornendo un indiretto alibi per scagionarlo dai sospetti della polizia, cosicché egli resta impunito. Nonostante le dichiarazioni di Allen sull'ispirazione dostoevskijana, la scena in cui il giovane arrampicatore sociale legge il romanzo, e qualche somiglianza con la struttura dell'intrigo, in realtà Delitto e castigo è distante anni luce dalla Weltanschauung del cineasta...
Per saperne di più leggi il resto della recensione sul numero di gennaio/febbraio della Rivista del Cinematografo