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Austin Butler in Masters of the Air (AppleTV+/Robert Viglasky)
Quando si enumerano i grandi successi della storia della televisione o quei prodotti che hanno reso grande il piccolo schermo in quella che è stata definita la seconda età dell’oro della televisione, a cavallo della fine del secolo scorso, raramente, per non dire mai, si citano due miniserie HBO che hanno davvero avvicinato il cinema e la serialità televisiva in termini di valori produttivi e portato emozionale. Queste due serie sono Band of Brothers (2001) e The Pacific (2010), due lavori prodotti da Tom Hanks e Steven Spielberg dopo la loro collaborazione in Salvate il soldato Ryan, che raccontavano le imprese e le tragedie die due distinti gruppi di soldati statunitensi durante la seconda guerra mondiale.
La prima vedeva al centro la Easy Company, un battaglione di fanteria paracadutato in Europa, la seconda invece aveva come protagonista i soldati della prima divisione di Marina durante le operazioni nel Pacifico, Giappone e sud est asiatico: due opere di grande bellezza e potenza realizzativa, supervisionate da un duo creativo di profilo altissimo, ma scritte e dirette dai migliori sceneggiatori e registi televisivi del periodo, tra cui parecchi nomi dal curriculum cinematografico.
Le due miniserie, seppur poco ricordate, hanno portato il livello di cura e costruzione di immagine e racconto televisivi a un livello in cui davvero si competeva con il grande cinema, non solo per profondità di narrazione e introspezione dei personaggi - semmai lì il confronto è con il romanzo - ma soprattutto per spettacolo e grandiosità, senza però fare della guerra un circo, bensì cercare dentro la furia e l’estasi delle battaglie quei valori umani, democratici e ideali che Spielberg e Hanks hanno spesso ricercato nella loro carriera.
Dieci anni dopo la fine di The Pacific (le riprese del nuovo progetto sono cominciate nel 2021, ma si sono interrotte e prolungate più volte), l’attore e il regista si sono impegnati per chiudere il trittico sulla guerra contro i nazisti realizzando Masters of the Air, progetto partito nel 2013 da HBO e approdato nel 2019 su Apple TV+ che, attraverso i suoi Apple Studios, ha prodotto per la prima volta da sola una serie sborsando 250 milioni di dollari.
Come i due precedenti, la miniserie si basa su un saggio storico, Masters of the Air: America's Bomber Boys Who Fought the Air War Against Nazi Germany, scritto da Donald L. Miller nel 2007 e, come il titolo lascia intendere, racconta le vicende dei Bloody Hundredth, il 100° gruppo bombardieri dell’aviazione USA durante le loro azioni, attraverso le ingenti perdite che subirono a causa dell’aviazione nazista, ma anche - e in questo segna una discontinuità rispetto alle due precedenti miniserie - raccontandone le vite private durante la guerra, la loro intimità ed emotività, gli attimi di pausa e vita sentimentale tra un duello aereo e l’altro, introducendo quindi figure femminili praticamente assenti in precedenza.
Anche questa miniserie è un racconto corale che ha però alcuni personaggi che fungono da perni dell’intera produzione: il maggiore Gale Cleven (Austin Butler), il maggiore John Egan (Callum Turner) e il maggiore Harry Crosby (Anthony Boyle) i quali si separano e si rincontrano lungo i nove episodi della miniserie nei percorsi che li porteranno a sorvolare lungo l’Europa, soprattutto Inghilterra, Francia e Germania, affiancati da un nutrito gruppo di comprimari in cui tra moltissimi attori emergenti compare anche un volto affermato come Barry Keoghan (nei panni del tenente Curtis Biddick), attore irlandese dal voto inquieto e dal talento cristallino, candidato all’Oscar per Gli spiriti dell’isola e ai Golden Globes per il recentissimo Saltburn.
La prima cosa che salta agli occhi guardando Masters of the Air è la prosecuzione di un armamentario produttivo e stilistico da grande cinema hollywoodiano o anglosassone, fatto di carrelli, campi lunghi o lunghissimi, Dolly e panoramiche aeree, effetti speciali quasi sempre stupefacenti; armamentario presente ovviamente nelle due precedenti serie, ma che di fatto è una gigantesca dichiarazione d’amore di Spielberg (e Hanks, ma in modo più sfumato) per il cinema bellico, amore ampiamente dichiarato nei suoi film da regista - in questo caso, più L’impero del sole che Salvate il soldato Ryan - che si ripete anche nelle vesti di produttore della serie: a partire dalla sigla composta da Blake Neely, un tripudio di immagini evocative e spettacolari, musica sinfonica e alcuni marchi di fabbrica spielberghiana come i controluce che trasportano la miniserie fuori dal tempo, l’intero show sembra concepito fuori dal tempo, in quell’atmosfera “confortevole” e un po’ nostalgica della Hollywood del passato, in cui il cinema di Howard Hawks, John Ford (di cui gli sceneggiatori e registi paiono recuperare anche un film quasi dimenticato come I sacrificati di Bataan) o addirittura di Michael Powell ed Emeric Pressburger, nelle atmosfere dell’ultimo episodio che ricordano alla lontana quelle di Scala al paradiso, in cui David Niven era un pilota inglese abbattuto dai nazisti che si ritrova nel limbo tra aldilà e al di qua.
La miniserie abbonda di immagini calde e sontuose spezzate dalla violenza dei combattimenti e di un racconto che, come il conflitto che mette in scena, non fa sconti riguardo alle vittime e sceglie toni e dinamiche di racconto che riflettono il modo in cui la narrazione televisiva è cambiata dal 2001 di Band of Brothers, ed è la seconda cosa che si fa maggiormente notare della miniserie, ovvero che il gruppo di personaggi principali è ampio e soprattutto più articolato, non è più una banda di fratelli assediati dai nazisti o isolati dalla natura ostile, i rapporti tra di loro si articolano in linee narrative che spaziano, si allontanano e riavvicinano, percorrono lo spazio europeo e i registri narrativi.
Masters of the Air, che pure abbonda di magnifiche battaglie aeree, in cui si nota il godimento sincero di produttori e realizzatori (quattro registi, tra cui Cary Joji Fukunaga), si svolge per circa metà del suo minutaggio (circa un’ora di media a episodio) fuori dal campo di battaglia, raccontando il rapporto dei soldati con il potere e la burocrazia, le dinamiche machiste che abbiamo imparato a conoscere e che in questo caso, parlando di piloti aerei, non possono non richiamare Top Gun, che vengono presto messe in contrapposizione alla presenza femminile.
Soprattutto è interessante, ed è forse la cosa più bella a livello di sceneggiatura (i due creatori della serie, John Orloff e John Shiban firmano gli script di ogni episodio), la descrizione degli aviatori alle prese con il mondo, con l’amore, con la vita civile che cerca di sopravvivere nelle città apparentemente lontane da bombe e morti, eppure da essi straziate, come la Francia divisa ferocemente in zona occupata e zona aperta, la Germania e la Mitteleuropa in cui cercare di fuggire dal nazismo per creare sacche di resistenza, l’accenno alla persecuzione ebraica e ai campi di concentramento; l’ottavo episodio poi è tutto dedicato a un battaglione di soldati afroamericani, guidati dal secondo tenente Daniels (Ncuti Gatwa, l’attuale Doctor Who in carica), per raccontare il modo in cui l’esercito li ha usati e abbandonati.
Masters of the Air nutre l’ambizione di raccontare uno spaccato della seconda guerra mondiale piuttosto ampio e completo, ma al tempo stesso è complementare alle altre due miniserie, come una pala d’altare rispetto a un trittico completo, come se fosse una sintesi delle altre due e un loro approfondimento. Questo è forse il punto forte e al tempo stesso il più grande limite del prodotto curato da Gary Goetzman in qualità di showrunner, perché la miniserie acquista in ampiezza e complessità ciò che perde in densità di racconto e profondità, sembra voler guardare oltre i propri confini e giocare con sfumature e ambientazioni diverse, come a voler mostrare la guerra in un’ottica più definita, ma rischia qua e là di perdersi qualche personaggio, sfiorando una certa superficialità, visto che alcune delle linee narrative scelte avrebbero probabilmente meritato una serie a parte.
Se quindi la narrazione mastodontica fa perdere a volte il passo giusto al racconto, la regia e la produzione si rifugiano nella magnificenza dell’elemento spettacolare, garantito dalla professionalità della troupe e soprattutto dal nutritissimo esercito degli artisti degli effetti visivi che mescolando trucchi ottici e digitali hanno reso quasi ogni duello aereo un piccolo miracolo.
Una scelta che può sollevare qualche dubbio, perché se la serie, come le sorelle maggiori, non ha mai avuto pretese anti-militariste o pacifiste, il ricorso all’avventura bellica come scorciatoia potrebbe far storcere il naso. Al netto di qualche dubbio però, Masters of the Air è uno di quei prodotti in grado di portare il senso del piccolo schermo un pochino più in là, in termini di risorse e di aspirazioni, rispetto ai confini che finora gli abbiamo assegnato.