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Giancarlo Commare e Gianmarco Saurino in Maschile plurale
Forse non è del tutto corretto dire che al cinema italiano non interessano i millennial (cioè quelli nati tra gli anni Ottanta e Novanta). Perché, sì, esistono i film dei millennial, ma non siamo così sicuri che esistano film sui millennial. Che si interessano a chi – o cosa – sono e cercano di capire cosa vogliono da questo mondo, quali siano i loro sogni e quali i bisogni. Qualche esempio c’è, ovviamente (Enea di Pietro Castellitto, Troppo azzurro di Filippo Barbagallo, Romantiche di Pilar Fogliati) ma stiamo parlando di una generazione schiacciata tra la Generazione X in eterna crisi di collocamento nel mondo e l’arrembante GenZ che si sta prendendo gli spazi che si merita.
Maschile plurale ci informa che, insomma, i trentenni non sono una terra straniera, che se ne può parlare in modo onesto – cioè con un affetto che non è aprioristicamente accomodante – e soprattutto concentrandosi su una nicchia per inquadrare qualcosa di più ampio.
Sequel di Maschile singolare, piccolo caso che in tempo pandemico ebbe una certa risonanza su Prime Video (e sulla piattaforma approderà in estate dopo il passaggio in sala per San Valentino), diretto da Alessandro Guida (il coregista del primo, Matteo Pilati, figura come produttore) che l’ha scritto con Giuseppe Paternò Raddusa e Gaia Marianna Musacchio, ritrova Antonio (Giancarlo Commare, sempre più maturo), diventato star della pasticceria grazie ai social, ancora segnato dalla morte dell’amico Denis, completamente votato al lavoro e senza relazioni fisse. Il destino vuole che si ripresenti Luca (Gianmarco Saurino, ormai star Rai tra Doc e Per Elisa, con mullet da ragazzo vissuto), che ha lasciato il forno di famiglia e fa l’operatore di una casa-famiglia per giovani LGBTQ+ insieme al nuovo compagno (Andrea Fuorto, visto in Patagonia).
L’incontro è rivelatorio, l’amore forse non è mai finito, e allora Antonio organizza un piano per tornare con quel Luca mai scordato (“dimenticare ha a che fare con la mente, scordare ha a che fare con il cuore”), nonostante l’amica Cristina (Michela Giraud, con più margini di manovra e un momento stand-up un po’ metatestuale) lo metta in guardia dalle minestre riscaldate.
Nel titolo c’è la chiave: dall’affermazione del sé si passa al bisogno del noi, dalla rivendicazione di un’identità per non sentirsi spaesati al desiderio di riconoscersi nell’altro per essere completamente se stessi. Perciò il secondo capitolo di questa educazione sentimentale è più legato agli schemi della commedia romantica tradizionale (più Matrimonio del mio migliore amico e (500) giorni insieme che Weekend o Théo et Hugo dans le même bateau). Si segue una strada abbastanza consueta (il piano per la riconquista dell’ex), accantonando la deriva più sessualmente libera (si ricorda con nostalgia la stagione degli incontri occasionali, dei “trenini”, degli eccessi) e mettendo al centro quel sentimento che incrocia la voglia di tornare dove si è stati bene e l’ansia per un futuro che impone responsabilità.
La confezione è da prodotto internazionale (Roma si fa più cartolinesca anche perché Antonio vive e lavora in centro), la commedia è queer nello spirito più che nelle forme, il mélo incombe senza eccedere nella melassa, forse il racconto del lavoro è un po’ stereotipato ma Maschile plurale funziona bene, dà voce a un sentimento generazionale unendo malinconie e sorrisi senza retorica né facilonerie (e che belli gli sguardi nel finale).