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Il cinema di Noah Baumbach è geometrico. E mai come in Marriage Story la quotidianità si trasforma in un gioco di simmetrie, riflessi, forme. Da una parte il geniale regista, dall’altra la musa, anche madre di suo figlio. I loro sguardi si incontrano, si ignorano, si cercano. Tracciano linee ben visibili, scandiscono il ritmo, determinano la quotidianità. Non è un caso che il film si apra con due lettere. Il loro contenuto può essere rivelato solo agli spettatori. Tra quelle righe si nasconde la dichiarazione di un amore al capolinea.
È una confessione: le parole, le immagini, l’essenza del sentirsi marito e maglie, dell’essere genitori. Poi la separazione, che squarcia le giornate dei due protagonisti, distrugge ogni momento di felicità. Ancora una volta, come in The Meyerowitz Stories, la magia dell’arte si trasforma in un ostacolo. Dalla scultura si passa alla rappresentazione, all’importanza della messa in scena.
Lui vuole il controllo sui suoi attori e su ogni gesto che riguardi la coppia, lei si sente soffocata, vuole scappare. Il passato è sinonimo di dolore, fraintendimento. Baumbach ragiona sulle prospettive, sulla scansione del tempo: i cambiamenti attraverso gli anni, la condivisione del proprio bambino. Gli affetti vengono monetizzati, diventano un oggetto di scambio.
Si torna a Il calamaro e la balena, quando il divorzio era raccontato dal punto di vista dei più piccoli. Le liti, gli schieramenti, la casa che veniva descritta come un campo di battaglia, dove ci si contendeva addirittura la stessa ragazza. Qui il dramma si fa adulto. E si affronta il rimpianto, per non essersi fermati in tempo, per non potersi più opporre a scelte magari troppo affrettate.
Baumbach, maestro del lessico famigliare, attinge forse anche dalla sua esperienza personale (l’addio a Jennifer Jason Leigh), e gira con mano ferma la sua opera più ambiziosa. Conserva lo stile pungente, vicino alla commedia degli attici di Woody Allen, mantiene i suoi dialoghi carichi, incalzanti. Fissa la macchina da presa sul volto dei suoi divi, quasi li stritola nelle loro emozioni.
Cattura le lacrime, i sorrisi, gli scatti di rabbia che fanno nascere cerchi nel muro (il pugno di Adam Driver), i comportamenti oltre il limite che portano a rette (il taglio nel braccio di Driver). E poi i quadrati, i rettangoli (le foto sul mobile nella villa della madre di Scarlett Johansson), i triangoli che si vedono sul palcoscenico durante le rappresentazioni.
Si riparte da Frances Ha, da quel: “Come nel matrimonio: andiamo d’accordo e non facciamo sesso”, che in qualche modo condensava la relazione tra Frances e Sophie. Qui si va oltre. Marriage Story è una piccola apocalisse narrata con tenerezza, una perla nella filmografia di Baumbach. Che si supera, si mette a nudo, sfida le convenzioni, si fa più malinconico e cerca la dolcezza anche in un mondo che crolla.