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Dalle prime ore del mattino a tarda notte, una giornata di Maria (Karen Di Porto), aspirazione attrice, professione key holder: si divide tra teatro e provini, ma soprattutto consegna le chiavi di varie case del centro storico di Roma ai turisti che le prendono in affitto per qualche giorno. Una vitaccia, fatta di corse in Vespa, battibecchi con la madre e il datore di lavoro, dialoghi onirici col padre scomparso, un’amicizia particolare con un ex collega e ora Gesù a uso e mancia dei turisti, incontri cinematografari, spleen e l’amore per la cagnetta cardiopatica Bea, Jack Russell purissimo con muso allungato da levriero…
Esordio alla regia di Karen Di Porto, Maria per Roma prende il titolo da un’espressione Capitale: “In questa città, cercare una Maria per Roma vuol dire essere alla ricerca di qualcosa che non esiste. È un detto che risale a molti anni fa, quando tante donne venivano chiamate Maria. Lo si usa anche per riferirsi a una ragazza non affidabile”.
Sull’exemplum delle peregrinazioni, altrettanto Vespate, di Moretti, la neoregista, sceneggiatrice e attrice assembla un collage in movimento di impressioni, ossessioni e rivelazioni, fissando su schermo la precarietà esistenziale, il nonsense frenetico, la solitudine divorante e la complessione aspirazionale dei nostri giorni. Nulla di eccezionale, intendiamoci, ma tra un check-in ai turisti e un check-out ai provini Maria per Roma in una forma elementare ma fresca, liquida ma non sfatta trova ironia e comicità, vanità e mal di vivere, straniamento e consapevolezza.
Non ci sono picchi emotivi, colpi di scena o climax in levare, ma Maria per Roma esiste: frammentario, diseguale, esile, ma esiste. E resiste a un cinema omologato. E omologante ( a partire dal maschile dietro la macchina da presa). Insomma, buona la prima.