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Alla periferia di Firenze, nel quartiere dell’Isolotto, c’è l’Istituto Tecnico per il Turismo Marco Polo. Un microcosmo, quasi un piccolo paese: 150 insegnanti, 1600 studenti. Nell’arco di un anno scolastico, Duccio Chiarini (Short Skin, L’ospite) ne ha osservato il quotidiano, attività extracurricolari comprese (la radio, il giornalino, i contesti musicali, i corsi d’italiano per gli stranieri). E ha realizzato Marco Polo, documentario prodotto da La Règle du Jeu e dallo stesso Istituto Tecnico e distribuito dalla Fondazione Niels Stensen, in sala dal 16 gennaio.
Il Marco Polo si pone subito come la cartina di tornasole di una società in movimento. “C’hanno un sacco di roba da far esprimere” dice un professore a proposito dei ragazzi, sfuggenti agli occhi di adulti pur impegnati a non ridurli a facili stereotipi.
Una comunità fatta di ragazzi che discutono di politica (non manca il classico “Mussolini ha fatto anche cose giuste”) e si alienano con il cellulare, si chiedono “per quanto tempo Instagram blocca il profilo per troppe segnalazioni?” e mettono in discussione i programmi ministeriali. E un corpo docente che s’interroga sul proprio ruolo, cerca un contatto con una generazione che conosce poco e non pretende di formare geni ma bravi cittadini.
Ogni tanto, in Marco Polo, sembra di ritrovare lo spirito di Domenico Starnone, il più acuto narratore della scuola italiana. Tant’è che a tratti si ha la felice impressione di assistere a un aggiornamento di Ex cattedra o Sottobanco. Certo, a differenza di quelle precise analisi mediate dalla reinvenzione narrativa e dal filtro dell’ironia, Chiarini trova la forza nella restituzione della realtà per ciò che è.
In un certo senso, Marco Polo fa capire perché la scuola sia uno dei grandi rimossi del cinema italiano. Un tema affrontato sporadicamente, tuttora segnato dall’antica lezione del Diario di un maestro di Vittorio De Seta. La scuola è finita, Il rosso e il blu, il più sperimentale La mia classe, i teen movie Come diventare grandi nonostante i genitori e Bianca come il latte, rossa come il sangue sono esempi di come, nell’ultimo decennio, il cinema italiano ha provato a rappresentare un mondo che la fiction tv ha edulcorato fino a rendere inverosimile.
Raccontare la scuola vuol dire raccontare anche ragazzi non come figurine strumentali all’idea (sbagliata) di una generazione negligente e sfrontata. “Certo, non sono sessantottini!”, dice una pur comprensiva professoressa. E meno male, verrebbe da dire, perché ogni generazione combatte la propria battaglia come meglio può, non secondo le aspettative altrui.
Ovvio, qualcuno non sa scrivere in italiano e qualcun altro ha una visione discutibile della storia contemporanea. Ma non occorre molto per scorgere nei loro occhi il desiderio di trovare un posto nel mondo. Posto che, tuttavia, sentono già negato da una società incapace di offrire occasioni e costruire possibilità. Cosa può fare la scuola? Ascoltare (davvero) ciò che i ragazzi hanno da dire, capire come esprimono la rabbia o la delusione, accompagnarli in un percorso di formazione che non sia una raccolta di sterili informazioni.
Chiarini compie un’operazione onesta e umanista: il Marco Polo non è la scuola ideale ma una scuola normale. In cui, a fine anno, mentre gli studenti aspettano i quadri con i voti, la bidella distrugge i compiti in classe. La carta si lacera, i voti scompaiono. Il resto, si spera, no. E un altro anno è alle porte.