È l’incipit a dirci molto, se non tutto: un anziano signore spagnolo, certo Enric Marco, dall’aria piuttosto amabile chiede a un funzionario tedesco di poter ottenere un certificato che attesti la sua presenza a Flossenbürg, un campo di concentramento in cui sostiene di essere stato deportato durante la guerra. Il funzionario controlla i registri d’epoca ma non trova alcuna occorrenza, Marco dice che forse ha usato uno pseudonimo ma non ricorda quale. La faccenda puzza, non fosse altro che tra i superstiti di Flossenbürg c’erano solo quattordici spagnoli, ma il funzionario, in buona fede, propone al signore di farsi vivo con le associazioni dei deportati.

Stacco, un ciak dà il via a Marco di Aitor Arregi e Jon Garaño, in concorso nella sezione Orizzonti a Venezia 81. Che è, evidentemente, una riflessione sulla performance e sull’affabulazione: sappiamo benissimo che questo Marco sta mentendo – o perlomeno sta confezionando una realtà distorta – eppure, all’alba del terzo millennio e scavallati gli ottanta (ma i contraccolpi del tempo si possono parare, tant’è che il signore continua a tingersi di nero baffi e capelli ormai bianchi: d’altronde ognuno indossa una maschera, no?), ce lo ritroviamo niente di meno presidente dell’associazione Amicale de Mauthausen spagnola, che riuniva gli spagnoli prigionieri della Germania nazista.

Nell’arco di pochi anni, infatti, è riuscito ad accreditarsi come uno dei più efficaci e appassionati testimoni dell’Olocausto, parlando con gli studenti e scrivendo libri “per non dimenticare”. E, nell’anno in cui si concentra il film (2005), sta per godere del massimo onore mai raggiunto dall’associazione: la presenza dell’allora presidente Zapatero alla commemorazione della liberazione di Mauthausen-Gusen, in Austria, in cui Marco è previsto quale oratore principale nonostante non abbia mai vissuto in quel campo.

Il momento di gloria finisce quando lo storico Benito Barmejo stabilisce che Marco è un impostore (da cui il titolo del bel libro che Javier Cercas ha scritto su questa incredibile storia) e che tutti i racconti che l’avevano reso icona del movimento erano falsi: non era mai stato un esiliato repubblicano in Francia; era rimasto in Spagna alla fine della guerra civile spagnola con la vittoria del franchismo: nella Germania nazista era arrivato come lavoratore volontario al servizio dell'industria bellica tedesca, in virtù di un accordo tra Franco e Hitler; non era mai stato arrestato per la sua attività nella resistenza. Tutti cadono dal pero, eppure, la verità era a portata di mano: com’è stato possibile?

Eduard Fernández in Marco
Eduard Fernández in Marco

Eduard Fernández in Marco

Arregi e Garaño – anche autori della sceneggiatura con Jorge Gil Munarriz e Jose Mari Goenaga – si focalizzano soprattutto sul protagonista, lasciando a chi gli gravita attorno – che siano i famigliari un po’ attoniti o i colleghi raggirati – lo statuto di “vittime” dell’arte affabulatoria e dell’abilità politica di un istrione (è un dato che la sua presidenza sia stata tra le più efficaci da un punto di vista mediatico; ma è altrettanto vero che la sua truffa ha istigato i negazionisti). Il ciak che apre la ricostruzione sta lì a dirci proprio questo: Marco sta interpretando un ruolo che si è cucito addosso per avere un posto nel mondo, manipolando gli altri ignari della realtà ed estranei al meccanismo teatrale.

E quando nel finale un cartello piuttosto beffardo ci dice che i fatti narrati sono veri ma, insomma, qualche concessione drammaturgica c’è stata, Arregi e Garaño (già autori di La trincea infinita, su un repubblicano che si nascose per trent’anni in casa per evitare sfuggire ai franchisti) stanno usando – ma all’interno di un mezzo che si fonda sull’artificio della finzione – la stessa arma di Marco, che comunque fino agli ultimi giorni di vita (è morto a 101 anni) ha difeso le sue azioni pur alterate.

Con grande intelligenza e passo incessante, non ci dicono i veri motivi che hanno spinto l’uomo a raccontarsi così: l’interesse è per la vocazione camaleontica, il desiderio di protagonismo, la deformazione creativa della realtà. Per essere visto dal mondo, ha convinto il mondo di essere un sopravvissuto, un resistente, un vincente; ed è entrato in una spirale in cui, forse, è arrivato lui stesso a confondere i confini della verità. L’ottima resa non può prescindere dalla gigantesca interpretazione di Eduard Fernández, un attore che incarna un altro attore (e autore di se stesso).