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Marcello Mio ©Les Films Pelléas
È ancora possibile rinvenire Marcello Mastroianni oltre l’iconologia dei poster, le gigantografie dei manifesti festivalieri, la sterminata ma sempre uguale galleria dei jpg risputata dalla rete?
Oggi appare del tutto indifferente se l’uomo col frac è il contrappunto all’Italietta berlusconiana di Ginger e Fred o se l’elegante slim noir con tanto d’immersione in fontana sia solo l’accessorio di un grande film come La dolce vita. Se insomma c’è un paesaggio felliniano nella fenomenologia di Marcello che non è semplicemente incidentale. Vale anche per le incursioni nella commedia – Germi, Monicelli, De Sica, Scola – e le “notti” di Visconti e Antonioni. Valga per le nuove generazioni e anche per quelle meno nuove. La memoria è selettiva. Succede così che la luce del mito oscuri le ragioni che lo hanno prodotto. La silhouette dell’icona inizia a gironzolare nell’immaginario, in libertà. È allora che Mastroianni finisce per non appartenere più al film e diventa nostro. A ciascuno il suo. Con sbuffo, cravattino, occhiali Prada o pullover rosso. Non solo ogni italiano può rivendicare un pezzo di Marcello come fosse suo, ma ogni appassionato di cinema al mondo esige una proprietà. Ma se è così per ognuno, che cosa dovrebbe dire una figlia? Non ha forse più diritto di altri all’aggettivo possessivo?
Marcello mio di Christophe Honoré è titolo che rispetta la pretesa di tutti (a partire da quella del regista francese), sposando però la stravaganza di una figlia, che per riappropriarsi dell’immagine paterna è costretta ad assumerne l’icona. Lei è Chiara Mastroianni e questa fantasia non può che nascere nel gioco performativo del set. Chiara sta provando una scena con il collega Fabrice Luchini, quando la regista di osservanza cannense Nicole Garcia le chiede di provare a rifarla mettendoci meno “Catherine” (Deneuve, la madre) e più “Marcello”. È poco più di un sussurro, ma deflagrerà nella terra psichica di Chiara con un boato. L’attrice inizia a vedersi come suo padre. La somiglianza fisica è evidente ma diventerà impressionante quando inizierà a portare i vestiti di scena, quelli che lo hanno reso anche un’icona di stile. Inizia ad andare in giro così, come un Marcello che visse due volte. Per lo sconcerto della madre ed ex moglie dell’attore Catherine Deneuve, della stessa Nicole Garcia e dei due ex compagni di Chiara, le star Melvil Poupaud e Benjamin Biolay (la fisionomia di quest’ultimo ricorda quella dell’italiano). L’unico ad assecondare questa svolta en travesti è Luchini, dal canto suo orgoglioso di poter finalmente lavorare con quel Mastroianni che non ha mai conosciuto. Nel mentre, Chiara s’invaghisce di un soldato britannico incontrato di notte sul ponte della Senna, in una rêverie che riecheggia Le notti bianche del padre. Ma è tutta l’atmosfera del film ad apparire trasognata, imbevuta delle fantasie di Chiara e della natura fantasmatica del cinema.
Come in un sogno dove tutte le identità sono possibili, il film si diverte a nascondere (ma non a cancellare) ogni confine tra set e vita, tra maschera e attore, finendo per allestire una riunione di famiglia allargata, dove ciascuno fa parte del gioco mentre fa il gioco delle parti. Dalle fragilità di Chiara, costretta a sgusciare fuori da due figure genitoriali soffocanti, ai silenzi “carichi” di Catherine, quando sembra riaffiorare dal pozzo dei ricordi un che di rimpianto e di improvvisa coscienza del tempo che passa. Ma è un affare di famiglia anche per Honoré, all’ennesima collaborazione con la Mastroianni e la Deneuve: tutto Marcello Mio è un delizioso valzer con i fantasmi dell’amore, della morte, della vita e naturalmente del cinema. Con una compagnia di giro brillante, divertita. In un omaggio unico nel suo genere, perché è insieme disturbo sentimentale e delirio metempsicotico, commedia dell’assurdo e autofiction malinconica. Un film un po’ alla Marcello e un po’ alla Deneuve. Parte italiano e parte francese. Divagante, scollato, libero. Una stranezza di viaggio per cercare Marcello. E trovare infine Chiara.