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Con Maraviglioso Boccaccio i Taviani rendono omaggio allo scrittore del cuore, toscano come loro, già “saccheggiato” nell’episodio de I fuorilegge del matrimonio (1961). E onorano la propria terra – la Val d’Orcia - esaltandone bellezze naturali e architettoniche dentro quadri geometrici, di grande luminosità e vivacità.
Rivendicano perciò le autentiche radici del Decameron, dopo la versione “partenopea” di Pasolini (Il Decameron, 1971), convinto che i furori licenziosi e libertari dell’opera boccaccesca nascondessero un sanguigno gene di napoletanità.
Altri tempi. Delle cento novelle del Decameron i Taviani ne scelgono cinque - quattro variazioni sui casi dell’amore e uno sulla stupidità - saltando gli steccati delle letture più pruriginose, che da sempre circondano le storielle del Boccaccio. Atterrano da qualche parte del loro cinema? A tratti.
C’è il piacere della ricostruzione – inedita e riuscita la rappresentazione della peste a Firenze nel 1300 – supportata dalla veridicità delle location e dalla cura nei costumi. L’utilizzo mai banale della musica, che mescola aspre sonorità moderne a melodie più classiche (Rossini, Verdi e Puccini). Riconoscibili anche alcuni motivi tematici, come il conflitto generazionale (a partire dalla cornice narrativa, interamente appaltata ai giovani, ma anche nell’episodio di Tancredi e la figlia), il primato del femminile, il potere dell’arte. Quest’ultima, come già in Cesare deve morire, è l’unica luce capace di rischiarare le tenebre.
Ma se nel film precedente gli scambi e i riverberi tra teatro e cinema, vita e finzione, impattavano pesantemente sulla realtà interiore ed esteriore alla scena, nel Maraviglioso Boccaccio tutto questo resta ancorato alla sfera dei desideri. Opera quasi manierista e imbalsamata nella sua eleganza, anche ben recitata (tra gli altri Scamarcio, Puccini, Rossi Stuart, Smutniak e Riondino), ma con troppi personaggi e poche risonanze emotive (come se la struttura a episodi e, giocoforza, la compressione narrativa, finiscano per asfissiarne il respiro drammaturgico), priva soprattutto dello scarto e dell’audacia necessari per dialogare efficacemente col presente.