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Manodrome
Ralphie (Jesse Eisenberg) è uno sfigato, un irrisolto, un incel, sebbene la ragazza l’abbia, e pure incinta. Autista Uber – diciamolo subito, il film vorrebbe essere un Uber Driver, come fu il Taxi per Scorsese: se, gli piacerebbe… - si allena in palestra senza grossi risultati (occhieggiando neri ben più dotati, anche lì), prende il Percocet di straforo, insomma, studia da balordo, perdendo presa sulla realtà e dunque trovando accoglienza, lui dall’identità e dall’orientamento così fragile, in una inquietante congrega maschile, Manodrome, guidata dal carismatico Dad Dan (Adrien Brody).
È appunto Manodrome, opera seconda del sudafricano John Trengove (The Wound), in competizione alle 73esima Berlinale. Riti di passaggio e sanzione sociale, (de)costruzione identitaria e misoginia, omosessualità e slatentizzazione, chi più ne ha ne dia al povero Ralphie, invero indegno di qualsiasi empatia, cui il film assegna un destino da pentola a pressione: stolido forse più del dovuto, imbelle e imberbe, a Eisenberg mancano solo i manici.
Assai più fascinoso Brody, che calibra bene un ruolo di felpata inquietudine, ma il problema non sta negli attori: è il vorrei ma non posso che gronda dalla sceneggiatura, derivativa per cinema, da Taxi Driver a The Master e Il fuggitivo, e per Zeitgeist, la fragilità maschile, e non affrancata dal giudizio, malgrado le apparenze.
C’è poco da salvare, se non la stigmatizzazione su quattro ruote di soggetti quali Ralph: in Upstate New York guida una Subaru, da noi guiderebbe un’Alfa.
Ah, a pensar male si fa peccato, comunque: l’Orso d’Oro alla carriera di Berlino 73, Steven Spielberg, porta il suo ultimo film The Fabelmans, che è Universal, la medesima società dietro questo Manodrome e il film d’apertura del festival She Came to Me, entrambi brutti. Si fa peccato, ma.