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L’arte attrae, respinge, appassiona e, come la matematica, è ovunque. Siamo circondati dalle geometrie, dalle creazioni nate dalla genialità di un illustre o sconosciuto poeta, romanziere, pittore, musicista o abile scultore. Manifesto racchiude dentro di sé le regole del Dadaismo, del Surrealismo, fino ad arrivare alla Minnesota Declaration di Werner Herzog. Le idee che sono state di Oldenburg, Malevich e Breton tornano a vivere in novantacinque minuti di pura passione, che trasportano la platea in un mondo unico, dove l’impossibile diventa realtà e le emozioni corrono come un fiume in piena.
Ma queste dichiarazioni programmatiche possono resistere all’andare del tempo? Possono diventare un mantra universale in grado di fugare ogni dubbio? E, soprattutto, possono aiutarci a guardare l’umanità con occhio nuovo? La risposta non è univoca. Serve una rinascita interiore per superare le grandi domande della nostra epoca, con i popoli, anche quelli occidentali, che si staccano dalla politica mentre riemerge un’intolleranza pericolosa e razzista.
Bisogna ricominciare daccapo, dice il film. L’arte è morta, il futuro è per gli indovini, e dobbiamo riconquistare il presente. Il capitalismo è ormai in declino e la nostra società è alla disperata ricerca di un’alternativa. Niente è originale, ogni cosa è già stata inventata, quindi è inutile continuare a strapparsi i capelli per inseguire l’innovazione. Siamo i padroni del giorno e della notte, i comandanti delle nostre esistenze. Di questo e di molto altro si parla in Manifesto. I sogni saranno sempre a occhi aperti e si uniranno con il quotidiano in una nuova dimensione: la surrealtà. Follie, provocazioni e sentimenti scorrono veloci sul grande schermo, mentre le persone comuni urlano la loro volontà di rompere gli schemi anche sul posto di lavoro.
Una maestra spiega il Dogma 95 di Von Trier ai bambini di una scuola elementare; un barbone urla il Manifesto del Partito Comunista dalla cima di un palazzo abbandonato; una vedova al funerale recita i motti dadaisti e seppellisce la ragione. E così incontriamo tredici personaggi diversi, ma dal volto sempre uguale: quello di Cate Blanchett. La diva offre un’interpretazione poliedrica, di grande impatto, che esalta il suo talento e riporta a Io non sono qui di Todd Haynes, dove aveva addirittura impersonato Bob Dylan. Un saggio di recitazione di rara bellezza, imperdibile, stimolante, con la Blanchett in stato di grazia. Lei era la Katharine Hepburn di The Aviator e ora abbraccia l’incredibile per raccontare la normalità. La donna dai mille volti si scinde, si disintegra per poi ritrovarsi in un solo spirito: quello di un’umanità alla deriva in un mare di contraddizioni.