A quattro anni dall’apprezzato esordio Non odiare (che intercettava con lucidità un tema cruciale come la recrudescenza dell’estrema destra tra i giovani), Mauro Mancini torna con Mani nude, presentato alla XIX Festa del Cinema di Roma in Grand Pubblic, e continua a rappresentare l’incontro – dunque lo scontro e viceversa – tra un ragazzo e un adulto.

Il primo è Davide (Francesco Gheghi, in costante crescita), rampollo borghese che una notte viene rapito, deportato in un luogo segreto, costretto a lottare in combattimenti clandestini in cui perde chi muore; il secondo è Minuto (Alessandro Gassmann), pseudonimo di un carceriere e allenatore, che in passato è stato anche lui un lottatore ma è rimasto al servizio di un anziano boss (Renato Carpentieri).

Il contesto è atipico, tanto prossimo al nostro quotidiano quanto non privo di suggestioni oniriche: una grande nave attraccata che è una specie di purgatorio, in cui uomini macchiati di qualche colpa indicibile (e quindi con un debito da pagare) si allenano come cani arrabbiati, nella speranza di vincere più incontri possibili per emancipare dall’orrore. Senza troppi spoiler, Mani nude è una storia nera di delitto e castigo che teorizza l’impossibile negazione della propria natura, anche quando sembra non coincidere con quella che siamo convinti di conoscere. E se l’accesso alla redenzione passa attraverso l’esercizio della violenza, allora il male si mangia tutto, condanna a sopravvivere sul baratro e impedisce la cognizione del perdono.

Alessandro Gassmann e Francesco Gheghi in Mani nude
Alessandro Gassmann e Francesco Gheghi in Mani nude

Alessandro Gassmann e Francesco Gheghi in Mani nude

Dall’omonima opera letteraria di Paola Barbato, Mancini (anche sceneggiatore con Davide Lisino) prova a costruire un noir che legga Fight Club all’altezza di Dostoevskij, lavora sugli spazi tra claustrofobia (il cassone del camion, le prigioni, le gabbie, le case da cambiare) e straniamento (i combattimenti nei luoghi più assurdi, dalle piste da bowling ai palazzi nobiliari, proprio a sottolineare quanto sia pervasivo il fascino della violenza), riflette sulla ciclicità del male specchiando lo spaesamento del ragazzo nell’annullamento emotivo dell’adulto e il dolore di quest’ultimo nella crudeltà del vecchio.

Mani nude, però, è indeciso nel tono, meccanico nello svolgimento, prevedibile nelle svolte, non riesce sempre a dominare la tensione e si abbandona a un’ultima scena francamente discutibile nel suo essere programmatica. Eppure lo sguardo empatico e misurato di Mancini affiora non di rado, dagli assolati incontri tra Gassmann e Carpentieri in campo lungo al notevole primo piano finale di Fotinì Peluso che ci ricorda ancora una volta che il noir è sempre una faccenda sentimentale.