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Manglehorn
Manglehorn non va in pensione. Potrebbe, ma preferisce continuare a lavorare nella sua ferramenta. Solitario, condivide un piccolo appartamento con la gattina Fannye. Ogni venerdì, poi, va a depositare qualche spicciolo allo sportello dove lavora Dawn (Holly Hunter), con la quale sembra possa nascere una tenera amicizia. Il rapporto con il figlio, che non vede e non sente quasi mai, è abbastanza conflittuale, ma almeno una volta a settimana Manglehorn non manca di trascorrere qualche ora in compagnia dell'adorata nipotina. Ben voluto da tutti, l'uomo vive però in un mondo chiuso, bloccato dal ricordo di una donna amata chissà quando e sparita per sempre.
Solamente un anno dopo Joe, David Gordon Green torna in Concorso a Venezia con un altro film su un uomo chiamato a fare i conti con la propria solitudine. Stavolta abbandona le cifre del thriller e si concentra sul percorso apparentemente senza sbocchi di un uomo che, paradossalmente, viene chiamato dagli altri per aprire porte rimaste chiuse ma che non riesce ad uscire da un forziere che si è costruito intorno.
Al Pacino - come in The Humbling di Barry Levinson - regge tutto il film, che però sembra non trovare mai la "chiave" per accendersi, creando una sorta di cortocircuito tra contenuto e forma, sovraimpressioni e ipnosi (anche musicali, con gli Explosions in the Sky e David Wingo, più Candy Walls dei Trust), affidando possibili cambi di ritmo alle incursioni schizofreniche di Harmony Korine (è Gary, da bambino allievo del "coach" Manglehorn) e speranze di un domani migliore alla tenera Dawn ("alba", non a caso...).
David Gordon Green, che insieme allo sceneggiatore Paul Logan, ha costruito il film su Al Pacino, chiede all'attore di rimanere sospeso in un presente da cui il passato non riesce a fuggire. E il film si adegua. Senza particolari scossoni, trovando solo nel finale la combinazione giusta per aprirsi.