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Una scena del film
Lars von Trier è forse il più incensato provocatore del cinema odierno. Affermazione che potremmo allargare anche a Michael Haneke, giusto per rimanere sulla Croisette, con la differenza che il secondo maneggia, controlla e plasma a suo piacimento lo spettatore, mentre il primo spesso lo irrita e lo indispone. Certo, scontiamo immediatamente la franchigia della messa in scena, la sottrazione di materia (pareti, porte, sfondi d'ambiente) che già conosciamo e da cui ci sentiamo spontaneamente affascinati, anche se dopo Dogville, il meccanismo risulta meno sorprendente. Scontiamo anche lo straniamento brechtiano del coté recitativo che lascia stupiti per pervicacia, coerenza ed estrema applicazione. Ma poi ciò che non può essere eluso è il ragionamento su cui la trilogia si basa: descrivere, raccontare, esporre le radici degli Stati Uniti d'America e dell'annesso strutturato e strutturante sistema capitalista. Grace (non più la Kidman, ma Bryce Dallas Howard), questa volta si ferma a Manderlay (Alabama), dove i bianchi vessano i negri segregandoli alla schiavitù. Siamo nel '33, fame e miseria si confondono sul proscenio di von Trier, ma Grace con l'aiuto di qualche sgherro del padre (e anche di un buon avvocato con occhialini e bretelle) si ferma nella piantagione e per un "obbligo morale" cambia l'ordine sociale a Manderlay. Bianchi e neri, d'ora in avanti, vivranno assieme e con gli stessi diritti, nonostante le vecchie regole del librone di Mam (Lauren Bacall), dove i neri erano divisi in sette categorie, tra cui il giullare, il fascinoso, ecc… Ma mantenere l'ordine nella comunità diventerà per Grace impegno improbo e poi il gruppo di neri non sembra così felice di questa nuova libertà. E' da qui che la provocazione parte e la lotta sociale e la filosofia evoluzionista si confondono subito con le regole del gioco (la democrazia e il celebre motto una testa un voto), sfiorando l'elogio dell'anarchia e la sottolineatura di un'incredibile misunderstanding: i neri, come gruppo sociale, necessitano di qualcuno che li schiavizzi e li metta in riga. Sono loro a chiederlo in Manderlay e questo è un dato che oltre alle affermazioni anti-Bush di von Trier, salta subito all'occhio. Così un conto è ragionare senza facili buonismi sulla reale contraddittorietà di un problema (i negri d'America e la questione razziale) e un conto è sputare sentenze che quel Klu Klux Klan, che dovrebbe essere sbeffeggiato nella solita carrellata di foto sui titoli di coda, potrebbe prendere come conferma dei propri assunti centenari. La provocazione di von Trier si impantana su sé stessa, dove una legge vale l'altra, dove la scala gerarchica dei diritti dell'uomo più elementare diventa burletta teatrale. Se poi pensiamo che le regole del gioco, appunto, le dovremmo inventare noi...