I primi minuti di Malcolm & Marie, il film che Sam Levinson ha scritto e diretto in pieno lockdown e ora disponibile su Netflix (mai come quest’anno, complice la reclusione forzata, un servizio decisivo che ha imposto la prospettiva di un modello di distribuzione sempre più ordinario), sembrano presagire un possibile musical. I due personaggi, gli unici in scena, si muovono nell’ambiente (una casa benestante, dalle suggestioni fortemente teatrali, un set che sottolinea l’adesione alla finzione dello studio) come se seguissero un’ipotetica coreografia.

Dallo stereo del salotto riecheggiano le note di canzoni scelte per dialogare con le vite dei protagonisti. Tuttavia, anziché cantare come in un musical, qui si ascolta o si canta sopra le canzoni, mettendo da parte la fuga onirica tipica del genere e intercettando invece un’autenticità realistica. Mentre si prepara il primo di molti drink, Malcolm (John David Washington, ottimo) danza e canticchia, fino a reinterpretare l’originale con inserti rap. Marie (Zendaya, folgorante) si muove accanto, tra il bagno e la cucina, e con la sua falcata elegante sottolinea l’ostilità a entrare nella sfera musicale del compagno: la tensione del mélo cancella l’armonia del musical che non sarà.

Entrambi vestiti eleganti, sono appena rincasati dalla prima del film diretto da Malcolm (la storia di una giovane donna in lotta con le dipendenze). L’uno è attratto dall’altra e viceversa, è evidente, il loro lessico è anzitutto erotico, ma la bomba dei troppi non-detti non tarda a esplodere. Marie, infatti, è furibonda: come si è permesso il suo compagno a creare un personaggio chiaramente ispirato a lei? E perché Malcolm continua a dire che si tratta di una coincidenza? A partire da questo primo scontro divampa la notte dei lunghi coltelli, un combattimento notturno in cui si alternano litigi e coccole, urla e baci, monologhi e lacrime. Un gioco al massacro destinato a sfociare nell’unica domanda possibile.

MALCOLM & MARIE. ZENDAYA e JOHN DAVID WASHINGTON. DOMINIC MILLER/NETFLIX © 2021

A scandire il tempo, dando fiato ai duellanti del kammerspiel, i drink di Malcolm (è anche il racconto della sua progressiva ebbrezza?) e le sigarette che Marie si accende con un accendigas (è anche il racconto della sua lotta interiore?). In un cupo e suggestivo bianco e nero, Levinson strizza l’occhio alla tradizione indie, con la camera a mano a sottolineare la vicinanza fisica a personaggi disorientati. È un regista in crescita, Levinson, showrunner di Euphoria, la serie che ha consacrato la star Zendaya. Figlio d'arte (il babbo è Barry, Oscar per Rain Man), al terzo film convince pur confermando la tendenza un po’ ridondante dei precedenti Another Happy Day e Assassination Nation, abbandonandosi a lungaggini o banalità (le musiche ammiccanti nei momenti romantici).

Non ne vediamo mai una scena, ma il film diretto da Malcolm è la cartina di tornasole per comprendere quello di Levinson. Gran pezzo quello in cui Malcolm legge, commenta e contesta la prima recensione (un contenuto online a pagamento, per inciso), uno tra i tanti di un lavoro costruito nell’alternanza di botta e riposta e assoli brucianti: Zendaya spezza il cuore nel finale, Washington è memorabile nel monologo in bagno, a bordo vasca, una dichiarazione d’amore in levare vocale che è anche uno svelamento terapeutico tra un drink e l’altro.