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Va dato atto a Ferzan Ozpetek di averci provato. Dopo il mezzo passo falso di Un giorno perfetto e la voglia di leggerezza sprigionata da Mine vaganti, il regista italo-turco cerca il film-summa capace di condensarne estetica e weltanschauung. Che l'abbia trovato però è tutto da dimostrare.
Magnifica presenza sfugge alla definizione di genere - è thriller e commedia, mèlo e kammerspiel - e alle consuetudini narrative del nostro cinema, per arrampicarsi sugli specchi di una realtà rovesciata continuamente nella finzione. Specchi che il protagonista, Pietro (un bravo Elio Germano), attraversa con naturalezza: pasticciere in cerca di fortuna - vuole sfondare nel mondo del cinema - prende in affitto un vecchio appartamento nel centro di Roma, che scoprirà essere "occupato". Gli ospiti non sono squatters ma spettri: un'intera compagnia teatrale alla ribalta negli anni del fascismo. Proprio in quell'appartamento si era nascosta per sfuggire alla polizia del regime (gli attori collaboravano con la resistenza) e lì aveva trovato la morte. Il bello è che nessuno dei fantasmi è consapevole di essere tale, crede anzi di vivere ancora nel '43 (data della loro scomparsa) e di aver trovato in Pietro la persona che gli permetterà di fuggire. L'aspirante attore, vinto l'iniziale sgomento, accetta la loro "presenza" perché questi spettri sono innocui e perché lui in fondo non ha nessun altro. E' un uomo solo e nulla esclude (nemmeno Ozpetek) che quei fantasmi se li sia immaginati per farsi compagnia.Poco importa: realtà e immaginazione sono due facce della stessa medaglia per il regista italo-turco, tanto da far dire al suo protagonista che "non c'é niente di più naturale di una finzione reale".
Ma il tema (non nuovo) della recitazione più vera del vero (gli interpreti, da Germano alla Buy, da Giuseppe Fiorello a Cem Yilmaz, da Vittoria Puccini ad Andrea Bosca, sono tutti ottimamente diretti) non è l'unico di Magnifica presenza che, da una parte non rinuncia ai motivi cari al regista - la custodia dell'altro che sfocia nell'elogio della diversità (preminentemente sessuale, ma non solo), l'apologia della tavola che diventa la via enogastronomica alla convivialità e all'amicizia - e dall'altra ne introduce di nuovi, come i riferimenti ai padri della patria e alla resistenza contrapposti a un paese che invece oggi si è involgarito soffocando l'arte (come è accaduto agli attori morti asfissiati nel loro nasconsiglio) o spingendo le sue forze creative nel sottosuolo (la scena dei trans che fabbricano parrucche e altri oggetti di scena lavorando in sotterranei simili a gironi danteschi).
L'apporto della Pontremoli è evidente, perché, come in Habemus Papam, anche la sceneggiatura di Magnifica presenza tradisce un bisogno di palingenesi, il desiderio di cambiare rotta ripartendo dagli sconfitti, gli umili e i deboli.
Ma, salvo alcuni momenti, il film si rivela squilibrato, poco armonico, incapace di contenere le sue molteplici spinte dentro un percorso coerente. Non deraglia ma sbanda il nuovo Ozpetek, fino a smarrire la meta finale: emozionare. La narrazione diseguale e pasticciata, i troppi punti morti, l'eccessiva carne al fuoco e uno stile poco adatto ad abitare la soglia tra fiction e realtà (il suo cinema debordante e a tratti kitsch, ricamato e teatrale, è già sufficientemente metatestuale) rendono Magnifica presenza non all'altezza delle sue ambizioni. E i sei personaggi in cerca di...finiscono per imbattersi in un autore incerto. Uno che si scusa con le grandi domande per le piccole risposte che ha dato.