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Salma Hayek Pinault e Channing Tatum in Magic Mike: The Last Dance. Copyright: © 2022 Warner Bros. Entertainment Inc. All Rights Reserved. Photo Credit: Claudette Barius
A dieci anni dal primo film, ancora una volta l’universo di Magic Mike rappresenta per Steven Soderbergh il dispositivo con cui redigere il suo personale Stato dell’Unione. Non a caso è tornato alla regia, dopo aver lasciato quella del sequel Magic Mike XXL a Gregory Jacobs: The Last Dance, così si chiama il terzo volume della serie, è dichiaratamente un film terminale e crepuscolare.
Ed è una trenodia che si serve del corpo divistico di Channing Tatum, alla cui reale esperienza da spogliarellista era ispirato il primo capitolo del franchise: dopo essere diventato sex symbol e star mondiale, Tatum, a un certo punto, si è preso una pausa dal cinema. Per lui, tornare nei panni del suo personaggio più celebre – che è anche una versione alternativa e parallela di se stesso – è un modo per rivelarsi in altra luce rispetto agli stereotipi.
E per farlo ha bisogno di Soderbergh, un regista con cui è a suo agio (cinque film insieme) e con cui condivide una certa idea di cinema (si vedano due grandi classici teorici come Effetti collaterali e La truffa dei Logan): la dissimulazione come chiave d’accesso alla verità, la tecnologia al servizio del contenuto e non del contenitore, la ribellione per convivere nell’America del capitale.
Sin dalle prime scene, The Last Dance sembra un film da dopoguerra: dimesso nei toni melanconici, strutturato sulla dicotomia tra ricchi annoiati e poveri demoralizzati. Inizia con una fine: in seguito a un fallimento finanziario, Mike è diventato bar tender. Anche fisicamente sembra aver compresso la sua arroganza erotica dentro un abito conformista. Mike deve riappaesarsi in un mondo che gli ha voltato le spalle e ripartire da zero ma, come un buon self-made-man americano, riesce a cogliere l’occasione del destino. Che ha le fattezze di Max, un’altolocata signora messicana di stanza a Londra (Salma Hayek, in gran spolvero).
Il loro primo avvicinamento si sviluppa prima come la coreografia (a pagamento) di un atto erotico che risveglia il desiderio della donna, e poi come un vero e proprio incontro d’amore ipotetico, che però resta fuori campo. Dalla transazione si passa al rilancio: la signora offre a Mike di andare con lei a Londra e gli propone un progetto a scatola chiusa che solo lui può portare a termine.
Piccolo saggio su teoria e tecnica dell’intrattenimento classico, Magic Mike – The Last Dance è cinema pandemico (il trauma delle rotture, la ricostruzione, il recupero delle relazioni, la leggerezza della regia), geometrico, calcolato, fluido. Scritto al solito da Reid Carolin, segue il tipico canovaccio della “commedia sull’allestimento di uno spettacolo”: la missione impossibile, gli ostacoli da superare, il climax ascendente, la storia d’amore che procede in parallelo (e infatti, nel finale, Soderbergh evidenzia esplicitamente il doppio binario).
Una specie di Spettacolo di varietà, perché Max vuole prendere un testo classico, il fantomatico Isabel Ascendant, su una donna costretta a scegliere tra l’amore e la sicurezza economica, e ribaltarne il punto di vista mettendo al centro il desiderio femminile. C’è un po’ di Pigmalione al contrario e senza contraccolpi tossici (la donna che vuole plasmare l’uomo, avendo visto in lui qualcosa che lui stesso non sa vedere: la demiurga che scopre il demiurgo), c’è un po’ di Cinquanta sfumature ma con maggiore coefficiente ironico e c’è un po’ di musical degli anni Ottanta per il discorso sul ballo atletico inteso come messinscena dell’amore e detonatore della chimica sessuale.
Cinema politico perché dalla parte delle donne, con gli uomini consapevolmente prestati alla rappresentazione plastica del loro desiderio, per quanto tuttavia il sesso risulti talmente stilizzato da sembrare sterilizzato (e in fondo non scopriamo niente di nuovo dicendo che il cinema americano contemporaneo ha paura di misurarsi davvero con l’erotismo), uno strumento funzionale alla riappropriazione femminile e all’emancipazione del maschio. Certo, è tutto molto semplificato, perfino facile (gli ostacoli, diciamolo, non sembrano così insormontabili), ma il lieto fine è una promessa mantenuta perché negata all’inizio (si gioca sul doppio senso di “happy end”…) e un film del genere impone che tutto, in qualche modo, trovi una soluzione (un amore), un ricongiungimento (una famiglia), una speranza (un futuro).