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“L'inferno è solamente una questione temporale a un certo punto arriva punto e basta”, cantava così Luciano Ligabue in Non ho che te, che narrava la storia di un uomo di mezza età che perdeva il lavoro. Proprio da quella canzone prende spunto il terzo film del famoso cantautore: Made in Italy. Il titolo è lo stesso del suo ventesimo disco, da cui è tratta la storia, e primo concept album della sua carriera uscito nel 2016 e balzato al primo posto delle classifiche. Al centro del film c'è la storia di Riko, interpretato da Stefano Accorsi, che come lavoro insacca mortadelle per 1200 euro al mese in una ditta della provincia emiliana e vive in una casa che suo nonno ha tirato su, suo padre ha allargato e lui non riesce più a permettersi. E' sposato con Sara (Kasia Smutiniak) da anni e ha un figlio ormai grande al quale consiglia di andare via perché è un attimo farsi andare bene tutto. Insomma per usare le stesse parole di un'altra traccia dell'album, che si intitola appunto Mi chiamo Riko: “ho cominciato presto con le otto ore, le stesse di mio padre e ho avuto un po' di fretta a mettermi con Sara”. Ma l'inferno è solamente una questione temporale e ad un certo punto arriva il licenziamento e Riko cadrà in una profonda depressione.
Dopo ben venti anni dall'esordio cinematografico di Radiofreccia Luciano Ligabue torna dietro la macchina da presa dirigendo per la seconda volta Stefano Accorsi come protagonista. Tornano anche le tematiche care della sua poetica e della sua musica: la provincia, l'amicizia, l'amore per l'Italia nonostante i tanti suoi difetti. Un paese che ormai ha poco da offrire, ma che non perde il suo fascino. Stessa poetica, stessa ambientazione (Correggio e le zone dove il cantante è cresciuto), ma anche tante differenze. A cominciare dalle inquadrature che lì spesso erano dall'alto per dare l'impressione di schiacciare i personaggi, mentre qui sono prevalentemente primi piani con l'intenzione di tirare fuori le emozioni dai volti. Radiofreccia fu il suo esordio alla regia e fu un film sorprendente per il tono sincero e per il suo modo di raccontare fluido.
Made in Italy invece (purtroppo) non ha nessuna di queste due caratteristiche. L'opera più matura e consapevole del rocker perde la spontaneità degli inizi. E quello che accade sembra spesso una forzatura degli eventi, come quando Riko si trova dal nulla nel bel mezzo di una manifestazione contro l'articolo 18 a Roma. Inoltre a tratti è un film prevedibile e alcune soluzioni narrative lasciano piuttosto interdetti. Il rocker narra comunque un mondo che conosce bene e porta in sala la precarietà economica ed esistenziale di persone perbene che vivono in “un bel paese che va in vacca”. Ma non basta questo e all' opera matura si preferisce la leggerezza e l'inconsapevolezza tipica della "beata gioventù".