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Mad Max: Fury Road
“My name is Max. My world is fire. And blood”.
È difficile, a caldo, cercare di mantenere la lucidità e l’obiettività necessarie per commentare il ritorno di George Miller alla saga cult di Mad Max. Senza troppi giri di parole, Fury Road è un irresistibile, adrenalinico, trascinante ed immersivo capolavoro. 30 anni dopo Oltre la sfera del tuono (e deviazioni impensabili come Babe o Happy Feet), il settantenne Miller si rimette al timone del suo indimenticato bolide, trasformando quel che restava del filone post-apocalittico in un enorme “baraccone” ipercinetico, nichilista e ipnotico.
Una love parade, un rave-party popolato da barbari e “war boys”, percussionisti e chitarristi di fuoco abbarbicati su potentissimi monster trucks. Tutt’intorno – ancora una volta – è il deserto, sabbia e terra (acida) infinita che separa la Cittadella dai territori ostili e da un miraggio, quello della Green Land. Destinazione della ribelle Furiosa (Charlize Theron, fantastica anche con i capelli rasati a zero, sporca di grasso e senza un braccio), Imperatrice del tiranno Immortan Joe (Hugh Keays-Byrne) che senza preavviso decide di sottrargli il bene più prezioso. Non l’acqua, non la benzina, neanche i litri di latte materno che vengono prelevati e custoditi con estrema cura… Da questo momento in poi inizia il film: un inseguimento da cardiopalma e sanguinario, in cui a breve giro di posta ritroviamo (il nuovo) Max Rockatansky, interpretato da Tom Hardy, chiamato al difficile compito di sostituire Mel Gibson. Rapito e tenuto prigioniero dagli uomini di Immortan Joe, Max viene esposto come trofeo, incatenato con tanto di museruola, in piedi sul cofano di uno dei bolidi partiti all’inseguimento di Furiosa. Ma da lì a poco cambierà ogni cosa…
Tom Hardy e Charlize Theron in una scena del film
Progetto messo in piedi oltre 15 anni fa, il film di Miller è un’apoteosi visiva in cui la fotografia di John Seale riesce a catturare in maniera quasi commovente le incredibili luci (strepitoso il lavoro in notturna) di location mozzafiato (il deserto della Namibia, tra soffici dune e canyon angusti stile Monument Valley). Capace di riscrivere le coordinate dell’action, Miller sfrutta ogni granello di tecnologia a disposizione per far esplodere lo schermo lungo tutte le due ore del racconto, che immaginiamo poggiato su una sceneggiatura davvero molto scarna ma figlio di un lavoro maniacale per quello che riguarda stesura di storyboard e coreografie. Sì, perché Fury Road è un’incessante danza tribale, una bomba che sprigiona schegge impazzite capaci di trafiggere qualunque convenzione che finora regolava l’action, il western e il road movie post-apocalittico. La fuga e la destinazione sono solo un pretesto per tornare al punto di partenza, perché la redenzione si può trovare anche nel luogo che ci ha deturpati per sempre. Per Max è diverso, però, il guerriero della strada dovrà tornare ancora una volta lì fuori, lì dove il silenzio e la solitudine hanno creato la sua leggenda.
Accolto trionfalmente dalla stampa internazionale, il film sarà presentato oggi Fuori Concorso a Cannes ed esce nelle sale.