PHOTO
Luca Marinelli in M. Il figlio del secolo - Foto Andrea Pirrello
“Silenzio”.
È l’ultima parola che Benito Amilcare Andrea Mussolini ci rivolge prima che il nero anticipi i titoli di coda di M. Il figlio del secolo, l’attesissima serie tv in 8 episodi tratta dal romanzo premio Strega di Antonio Scurati, presentata Fuori Concorso a Venezia81 (finora la cosa in assoluto più sorprendente di questa edizione della Mostra) e prossimamente (nel 2025) disponibile su Sky e in streaming su NOW.
Il “silenzio” è quello del parlamento in seguito al celebre discorso del Duce del 3 gennaio 1925, quando dopo essersi assunto “la responsabilità politica, morale e storica” di quanto era avvenuto negli ultimi mesi in Italia, soprattutto a proposito del delitto Matteotti, Mussolini accenna all’articolo 47 dello Statuto, invitando i presenti a servirsene contro di lui: “La Camera dei Deputati ha il diritto di accusare i Ministri del Re e di tradurli dinanzi all'Alta Corte di Giustizia”.
Quell’assenza di risposta, quel silenzio, sancisce ufficialmente l’inizio del ventennio fascista, spalancando il portone della dittatura.
Vorticosa e irresistibile, la serie diretta da Joe Wright (prodotta da Sky Studios e da Lorenzo Mieli per The Apartment, società del gruppo Fremantle, in co-produzione con Pathé, in associazione con Small Forward Productions, in collaborazione con Fremantle, CINECITTÀ S.p.A. e Sky) – proprio come il libro di Scurati (primo di 3, i successivi sono M. Il figlio della provvidenza e M. Gli ultimi giorni dell’Europa, tutti editi da Bompiani) – racconta l’ascesa di Mussolini partendo dal 1919, anno in cui fonda i Fasci di combattimento: “Uomini forti, idee semplici” è il suo motto, linea guida di un uomo che – come ama ripeterci sovente lui stesso – è “come le bestie, sento il tempo che viene”.
L’ex socialista, già direttore del quotidiano di partito Avanti!, poi fondatore de Il Popolo d’Italia, “rivive” sullo schermo grazie alla prova monstre di Luca Marinelli, di fatto protagonista di un one man show che già dal prologo – straordinario – rivela la cifra avvincente e rivoluzionaria dell’intera operazione: “Mi chiamo Mussolini Benito Amilcare Andrea, di Mussolini Alessandro e Maltoni Rosa…”, sarà solamente il primo squarcio del continuo sfondamento della quarta parete, stratagemma attraverso il quale Joe Wright e gli autori (Stefano Bises e Davide Serino, con Scurati accreditato per soggetto di serie e soggetti di puntata) effettuano uno scarto decisivo con il romanzo di partenza (dove Mussolini parla in prima persona solamente in apertura e in chiusura), restituendo maggiormente la sensazione di un’immediatezza che ci riporta sì indietro di un secolo ma che al tempo stesso ci illude di (ri)vivere un hic et nunc cupamente predittivo.
“La democrazia è bellissima, ti dà un sacco di possibilità. Anche quella di distruggerla”, del resto, e più si procede verso la presa del potere più la maschera del futuro Duce abbandona la dimensione bidimensionale ergendosi a figura romanzesca tout court.
Il pubblico e il privato si fondono, la coerenza di un’ideologia che nasceva – almeno nelle sue intenzioni – come rivoluzionaria si tramuta in “reazione”, il Mussolini-Marinelli (M., per il cinema espressionista era il mostro di Düsseldorf, d'ora in avanti sarà l'incredibile osmosi tra il dittatore e questa prova attoriale) si rivolge al suo interlocutore e un istante dopo sfoga con lo spettatore il suo risentimento, la sua rabbia, quello che pensa “davvero”.
È un flusso ininterrotto, pirotecnico, un'immersione tra repertorio e ricostruzione plumbea e fiammeggiante, che la colonna sonora di Tom Rowlands (il 50% dei Chemical Brothers…) inasprisce ed esalta con un beat inesausto e feroce, assecondando la natura desultoria di una prosa visiva che in questo sì cavalca la cifra madre del libro d’origine, resa ancora più coinvolgente grazie all’incredibile prova dell’intero cast.
Da Francesco Russo che interpreta Cesare Rossi (alcuni duetti con Marinelli sono di pura commedia avanguardista) a Barbara Chichiarelli nei panni di Margherita Sarfatti (la critica d’arte, amante di Mussolini e decisiva per la sua affermazione sociale, “tu sei il male e la cura”), poi il solito, incredibile Paolo Pierobon in quelli di Gabriele D’Annunzio (tutta la parte relativa alla “presa di Fiume” è indimenticabile), un dolente e combattivo Gaetano Bruno per impersonare Giacomo Matteotti, la Donna Rachele di Benedetta Cimatti, il re Vittorio Emanuele III di Vincenzo Nemolato, l’Italo Balbo di Lorenzo Zurzolo, ogni personaggio alimenta di volta in volta la contraddittorietà che caratterizza il momento e il pensiero di Mussolini (“Noi siamo l’affermazione e la negazione”, d’altronde…), che nei corridoi del Teatro San Carlo di Napoli, dopo il discorso che di fatto dà il la alla Marcia su Roma dell’ottobre 1922 (già Mark Cousins nel doc del 2022 ci aveva ben spiegato la "farsa" cinematografica di quell'evento...), si rivolge ancora una volta a noi: “Ci vedete come pagliacci, bugiardi, buffoni, scandalosi. Può darsi, può darsi… Ma è irrilevante: noi siamo il nuovo. Ogni epoca ne ha uno, uno che pensa che i suoi sogni possano realizzarsi”.
Mussolini ci parla ancora, (“Make Italy great again!” gli scapperà ad un certo punto…), insomma, ammesso abbia mai smesso realmente di farlo. E seduto sul sedile posteriore della sua auto, dopo l’ennesimo incontro immaginato con la vedova Matteotti (Elena Lietti), procede verso il futuro mentre intorno a lui i fantasmi della Storia incominciano ad abitare in maniera demoniaca il panorama notturno al di là dei finestrini.
È un momento fugace, un quadro in movimento rivelatore e angosciante: Mussolini ci parla ancora, dunque: saremo nuovamente così ingenui da pensare di non dargli peso, da pensare – come in fondo fece anche Giovanni Giolitti – di poterlo “domare”?