Il 13 dicembre si festeggia Santa Lucia: a Crotone, di notte, in suo onore ardono grandi pire di fuoco. Leggenda vuole, infatti, che le fiamme che divampano da vari punti della città possano ridonare la vista alla santa. Ancora oggi l’antichissima usanza impegna più quartieri in una competizione a chi riesca a far bruciare la piramide votiva più alta, imponente, maestosa.

Questo è l’obiettivo soprattutto di tre adolescenti dello storico quartiere operaio Fondo Gesù, che per giorni marinano la scuola per rastrellare, ammassare e impilare legna tra i cascanti condomini popolari, per poi farla ardere la notte della ricorrenza. Per i ragazzi trattasi di una missione inderogabile che contiene, non devozione religiosa, ma senso di rivalsa, riconoscimento sociale e appartenenza rionale: è un richiamo tribale, un imperativo morale per una generazione senza padri e senza riferimenti. Non cercano protezione, non venerano la santa, non frequentano chiese, vogliono mantenere la tradizione per visibilità mediatica e legittimazione dalla generazione adulta.

Il pitagorico Matteo Russo, dopo una considerevole gavetta svolta a suon di corti, videoclip e assistenza sui set, esordisce al lungometraggio per documentare passo dopo passo, palo dopo palo la quotidianità e l’impresa collettiva di questa comitiva di giovinastri.

Nella sua cinepresa non manca sincerità d’intenti, empatia generazionale (anzi, forse sovrabbonda), senso della prossimità (anche linguistica, dato che i suoi protagonisti si esprimono nel dialetto d’origine), radiografia del contesto sociale, soprattutto volontà di sottrarre all’oblio uno dei riti folkloristici più caratteristici del nostro Meridione. 

Il doc – presentato in concorso nella sezione Documentari italiani in anteprima mondiale al 41TFF Torino Film Festival e la selezione all’Italian Showcase di CannesDocs 2023 – insiste in un turbinio di camere a spalla addosso ai ragazzi di vita; ne celebra l’iniziativa e, insieme, ne sviscera le ferite che sgorgano già nelle loro giovani vite: la gran parte di loro deve far i conti con padri assenti, morti o incarcerati. E anela come può una riconciliazione. Russo ci restituisce in pienezza un contesto di fragilità, di disgregazione sociale e generazionale in cui i giovani fanno gli adulti e viceversa. I ragazzi sono risoluti, sicuri, padroni dell’organizzazione, capaci di erigere senza troppi calcoli né competenze ingegneristiche, giorno dopo giorno, una torre di legno di decine di metri. Gli adulti, di contro, appaiono neghittosi, inadeguati, disimpegnati, indifferenti, capaci spesso solo di sermoni educativi.

Scomparso il senso del sacro, rimane l’arcaismo, dunque, come antidoto alla disgregazione e al disagio sociale. Pur emergendo, di scorcio, un quadro sociale di disconnessione, di non comunicazione tra i vari quartieri di una città emarginata, la cinepresa oscilla, forse troppo, tra la documentazione troppo pedissequa dell’impresa e lo svelamento emotivo delle difficoltà famigliari dei protagonisti.

Latitano in fondo guizzi di regia, come una chiarezza discorsiva data forse dalla volontà di abbracciare e catturare il tutto. Ne esce un doc ibrido che, puntando tutto sull’azzeramento della distanza con l’oggetto della rappresentazione, non riesce fino in fondo a far reagire e riconnettere l’individuo e il contesto, il ragazzo e la città. I sogni e la Lux.