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La ragazza nella nebbia, L’uomo del labirinto. Dal romanzo allo schermo, nelle storie di Carrisi bisogna smarrirsi: paesini di montagna quasi dimenticati, città sospese in un’altra dimensione, dove regnano grattacieli, periferie, paludi. Le strade sempre uguali si inoltrano nei boschi, cieli infuocati illuminano l’orizzonte aspettando l’apocalisse. E poi la nebbia, il labirinto. Tutto è fumoso, quasi impalpabile, difficile da focalizzare.
Si procede per accumulo: le linee narrative si intersecano, si frammentano, in un dedalo di ipotesi, dubbi, suggestioni, con lo sguardo agli americani. Un po’ Fincher, un po’ Lynch, con un’infarinatura di Donnie Darko, in un racconto dove Alice non cammina più nel Paese delle Meraviglie, ma in quello degli incubi.
Impianto noir, l’investigatore che registra i propri pensieri, si trascina sporco per i peggiori locali della zona, beve tequila e latte, e si atteggia a Philip Marlowe.
La caccia è al mostro per eccellenza, all’assassino, ma anche gli uomini a modo loro sono “storpi”. Alcuni hanno le labbra saldate, non possono parlare, chi porta la tonaca ha perso la fede, ci si nasconde dietro a maschere, i poliziotti minacciano invece di indagare. E l’ufficio delle persone scomparse sembra un luogo kafkiano, che non a caso si chiama “Limbo”. È sospeso tra inferno e paradiso, e tra i cassetti di quella stanza tutti aspettano che qualcosa si compia.
Non manca la parabola cristologica. La radio trasmette il credo dei “pentecostali”, gli ascoltatori vengono messi in guardia sulla fine del mondo. Il protagonista segue un percorso di espiazione, sale sul suo Calvario, segue la via del sacrificio, fino alla “resurrezione”, in questa realtà o forse nei meandri di una mente deviata.
L’uomo del labirinto è molto più ambizioso de La ragazza nella nebbia. Ad accomunarli c’è il peso della solitudine, dell’isolamento. Ma qui la critica sociale è molto più affilata. Non ci si interroga sul rapporto tra polizia e media, sull’attrazione macabra verso la notizia.
La riflessione è su una società che riconosce la violenza come elemento costitutivo, da tramandare da psicopatico a vittima. Ognuno ribalta i propri traumi su chi ha intorno, in un gioco di specchi dove le immagini si sdoppiano, i disegni sono schizzi oscuri.
Thriller d’atmosfera, che danza sul baratro, sceglie di superare il limite e di giocarsi fino all’ultima carta: durata extra- large, grandi divi che non si incontrano mai (Toni Servillo e Dustin Hoffmann duettano una volta sola), finale apertissimo, in un maledetto imbroglio che si trasforma in un nodo gordiano.
È un cinema claustrofobico, tra luce e oscurità, dove ovunque ci sono pareti pronte a schiacciare, a stritolare. Le inquadrature dall’alto si alternano a primissimi piani, e il delirio si ispira anche al sadismo (ma senza sangue) di Saw e The Cube. Film imperfetto, affascinante, molto coraggioso, specialmente in Italia. Un’opera seconda da sostenere, perché lascia ben sperare nel futuro.