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Tra le figure che popolano i numerosi biopic degli ultimi anni, i matematici e gli scienziati sono secondi solo ai musicisti per numero di trasposizioni. Dopo gli oscarizzati John Nash (A Beautiful Mind), Stephen Hawking (La teoria del tutto) e Alan Turing (The Imitation Game), ora tocca al più curioso del gruppo: Srinivasa Ramanujan, un genio inconsapevole protagonista di L'uomo che vide l'infinito,diretto da Matt Brown (al Bifest e dal 9 giugno in sala con Eagle).
Il film racconta di questo ragazzo (Dev Patel) che nella Madras degli anni '10 del secolo scorso rivoluziona molte delle teorie matematiche dell'epoca, con talento puro e genio quasi istintivo. Ma l'India è ancora una colonia britannica e il ragazzo ha bisogno dell'approvazione accademica quindi si reca a Cambridge, dove il professore G. H. Hardy (Jeremy Irons) è interessato ad approfondire le questioni sollevate da quelle teorie: ma l'accademismo occidentale, il razzismo e la guerra metteranno molti bastoni tra le ruote.
Scritto dal regista sulla base del libro omonimo di Robert Kanigel, L'uomo che vide l'infinito è un tipico film biografico in salsa britannica in cui la Storia fa da sfondo e al contempo motore di eventi e personaggi reali, romanzati come accademia impone.
Un film che però nonostante le vesti non proprio scintillanti ha molti argomenti da trattare, oltre la storia personale di Ramanujan, come per esempio la differenza apparentemente insolubile tra la razionalità alla base del pensiero occidentale e la visione che guida il pensiero orientale, tra la visione classica e quella romantica che nel film si sfidano con la difficoltà del protagonista di dimostrare le sue idee: e fin quando il film lambisce questi territori, provando a far comprendere almeno in superficie il talento del matematico, regge gradevolmente, per quanto del tutto convenzionale e manierato.
Poi però il pathos deve prevalere su tutto e la vita difficile di un matematico indiano diventa una comune telenovela in costume, fatta di complicate situazioni familiari, razzismo, violenze, soprusi, malattie e, perché no, la guerra e qualche bomba. Così tutto il fascino di temi e personaggi si disperde, la voglia di lacrime risucchia il bisogno di capire la bellezza del sapere e l'estetica della matematica di cui parla Bertrand Russell nell'epigrafe del film. Bel modo beffardo e cinico – sotto la parvenza del sentimentalismo – per contraddirne le parole.