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Una scena di Lunana
È entrato nella rosa dei candidati all’Oscar per il miglior film straniero (prima volta per il Bhutan!) sbaragliando titoli autorevoli come A Hero di Farhadi. Eppure, solo chi non avesse compreso la ratio delle recenti scelte dell’Academy può realmente dirsi sorpreso dell’exploit di un piccolo film del Buthan come Lunana (dal 31 marzo nelle nostre sale con Officine UBU).
Il successo di Parasite, il forte endorsement per Minari (produzione americana, ma lo mettiamo nel mazzo per cóte e sensibilità), da ultimo le quattro candidature al giapponese Drive My Car testimoniano della popolarità al Kodak Theater della proposta asiatica.
Un’attenzione incoraggiata dell’accresciuto peso delle minoranze in seno all’organizzazione assegnataria degli Oscar e al contempo spia della crescente sfiducia verso l’attuale offerta valoriale dell’Occidente, investito da una crisi storico-politica preoccupante, che affonda le radici in un cedimento morale sotto gli occhi di molti.
LunanaDa questo punto di vista, la disponibilità di uno storytelling coinvolgente ma depurato dalla confusione del western man e dal cinismo fine a sé stesso, imperniato su una fusione di antica saggezza e moderna sensibilità, si è rivelata l’uovo di colombo per élite in cerca di retoriche credibili e più solide impalcature ideali. Se non fosse anche un film a suo modo sincero e fatto grazie agli autoctoni (cast composto da locals non professionisti), Lunana sarebbe il prototipo del nuovo corso, anche per lo stile globalizzato, la confezione da esportazione.
L’abile regia dell’esordiente Pawo Choyning Dorji squaderna alcuni dei principali temi in agenda senza però ridurre il respiro mitopoietico del racconto. La storia di un giovane insegnante indolente verso la propria missione educativa – un bambino, in una delle battute fulminanti del film, gli ricorda che “un insegnante tocca con mano il futuro” – e convinto di essere destinato a cose più grandi in una illusoria terra promessa (l’Australia), è documento (basato sulla vicenda personale dell’attore protagonista) e parabola universale, attraverso la quale il film lascia decantare i suoi tanti sottotesti.
LunanaLa solidarietà tra le generazioni e tra i popoli (nella neve che cade meno che in passato, c’è il battito d’ali della farfalla del riscaldamento globale); l’ecologia integrale di chi si riconosce vita tra vita, parte di uno spirito universale che soffia dove vuole, negli uomini, negli animali, nelle montagne; l’amarezza verso i millennials che possono fare ma scelgono di sottrarsi, fuggendo le responsabilità.
Pawo Choyning Dorji non trasforma nulla in biasimo, preferendo semmai usare l’ironia (quando ad esempio uno dei pastori ricorda il paradosso di chi desidera lasciare il Buthan, la nazione della "più alta felicità interna lorda") e mantenere vivo il timbro poetico, venandolo di nostalgia.
Tra il Buthan e l’Australia non c’è di mezzo solo il mare ma un percorso di conoscenza: è la scuola più remota del mondo, nel villaggio di Lunana, che assume simbolicamente nel film l’ancipite valenza di un altrove spaziale e mitico: è lì, tra le vallate dell’Himalaya, nel posto più improbabile ed essenziale della terra (per la mancanza di comfort, certo, ma anche perché basta a sé stesso) che il maestro “dovrà apprendere” la lezione della vita, imparando come si possa davvero trovare l’alba dentro l’imbrunire.
E scegliere comunque l’anonima ribalta di un sole ingannatore.