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L'ultimo drink
Un altro giro? No, un ultimo drink, anzi l’ultimo, come il titolo italiano di One for the Road, commedia tedesca (sembrerebbe un controsenso) di Markus Goller (all’attivo il successo di 25 km/h, da cui il remake di Fabio De Luigi, 50 km all’ora). In realtà l’assunto è diverso: se per Thomas Vinterberg l’ebbrezza era la via per aprire la mente e accettare la vita (contraccolpi permettendo), qui la faccenda è meno intellettuale (e struggente) e più spiccia.
Il protagonista, infatti, è alcolista e, in quanto alcolista, nega di avere un problema, tant’è che gestisce piuttosto bene lavoro (fa il capocantiere) e svago (vive di notte saltando da un bancone all’altro). Finché la polizia lo ferma e gli ritira la patente costringendolo a superare un esame medico-psicologico. Il che l’obbligherebbe a smettere di bere: tutto bene, ci scommette pure con un amico, ma l’incontro con una donna nella sua stessa situazione fa sballare i programmi.
Come commedia drammatica è un po’ fiacca e schematica, il ritmo è faticoso soprattutto nella seconda parte in cui si deve mettere tutto in ordine (quasi due ore sembrano un po’ troppe), le figure di contorno restano sullo sfondo e a tratti troppo bidimensionali (ma Frederick Lau è un protagonista carismatico), eppure è sul piano tematico che L’ultimo drink offre parecchi spunti di riflessione. Non fosse altro che, a differenza di altre dipendenze, l’alcolismo è socialmente più accettato e, di conseguenza, sottostimato nei suoi effetti devastanti, sia per l’individuo che nei suoi rapporti con il mondo.
Certo, Giorni perduti di Billy Wilder o I giorni del vino e delle rose di Blake Edwars sono modelli lontani e irraggiungibili, ma Goller – che mette in scena la sceneggiatura di Oliver Ziegenbalg – è abbastanza abile nello squadernare qualcosa che, in sé per sé, è tanto prevedibile quanto efficace: l’alcolismo è anche – o soprattutto – il sintomo di qualcosa di più profondo, che copre un trauma da affrontare una volta per tutte. Amaro senza rinunciare all’allegria, schietto perché squisitamente popolare, non giudica ma osserva quel che accade restituendo un condivisibile messaggio educativo.