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Tutto in una notte. Era questa la provocazione di John Landis nel 1985, dove la favola e la finzione sfioravano la magia, tra gangster, diamanti perduti e femme fatale da capogiro. Forse era la rielaborazione di un altro grande titolo: Accadde una notte del 1934 di Frank Capra. Per il regista di La vita è meravigliosa, l’importante era l’evento, l’attimo. Landis invece circoscriveva lo spazio: “tutto”, senza riserve. Quel “tutto” resta anche oggi, attraversa le narrazioni ed è protagonista della terza regia di Andrea Di Stefano: L’ultima notte di Amore. Anche qui vige la regola del “tutto”. Sotto un cavalcavia si scatena l’inferno, quella scena del crimine diventa il fulcro del film.
Il titolo, anche grazie al nome del protagonista, può avere un doppio significato. Amore è il suo cognome, ma allo stesso tempo indica una passione al crepuscolo, la fine di una carriera. Sta per andare in pensione, ma come sempre ritirarsi costringe a fronteggiare molte insidie. La Milano di L’ultima notte di Amore è scura, crepuscolare. Il noir e il poliziottesco si incontrano, ancora una volta Milano è Calibro 9. L’universo criminale è ben radicato, la polizia è corrotta, i cinesi dominano la scena. Negli ultimi anni alcuni hanno cercato di riportare in vita il filone. Pensiamo a Calibro 9 di Toni D’angelo e a Lo spietato di Renato De Maria, con difficoltà sempre maggiori. Andrea Di Stefano mescola più sfumature, gioca con le tenebre, realizza una storia feroce. In Italia lo conosciamo più come attore, ma dietro la macchina da presa ha realizzato storie interessanti.
Il suo esordio Escobar contrapponeva le fiamme al paradiso, con Benicio Del Toro nei panni del luciferino narcotrafficante. L’idea era di non raccontarlo in prima persona, ma come un personaggio riflesso, che si specchiava nello sguardo di due giovani “avventurieri”. Ha proseguito con The Informer – Tre secondi per sopravvivere, vigoroso e brutale, sospeso tra prison movie ed action senza requie. Con L’ultima notte di Amore si sposta in Italia. Lavora con forza sulle atmosfere, creando un assedio, con al centro un antieroe sfaccettato, caratterizzato dal volto di Pierfrancesco Favino. Franco Amore ha una famiglia, vuole invecchiare guadagnando molto di più. Riceve un’offerta ricca dalla mala, sceglie di essere anche un loro “impiegato”. Al primo incarico però la situazione precipita, i protettori si trasformano nei cattivi, il sangue scorre.
L’ultima notte di Amore è una storia anomala, che unisce passato e presente, e sottolinea una certa dinamicità nella produzione. Peccato che la vicenda a tratti sia forzata. Alcuni passaggi sfidano la sospensione dell’incredulità: le scorribande di Linda Caridi, certe scelte dei personaggi secondari. Ma L’ultima notte di Amore ha comunque la voglia di osare, di uscire da certi canoni del nostro cinema. Ha uno spirito più internazionale, Milano sembra davvero New York.
La sequenza iniziale è girata con un elicottero. È una lunga panoramica notturna sul capoluogo meneghino. Potrebbe essere una metropoli americana oppure Hong Kong. Le strade ricordano il Bronx, sui rooftop del centro si consumano affari loschi. Favino interpreta un uomo che è sia vittima che carnefice, bloccato in un limbo tra legge e malvagità. A Di Stefano forse è mancata un po’ di libertà, la stessa che aveva fatto splendere Escobar, ma L’ultima notte di Amore ha comunque una cifra stilistica che bisogna sostenere. Il film è stato presentato in anteprima al Festival di Berlino, nella sezione Berlinale Special Gala.